E fu strano quando si trovò a valutare tutto senza le etichette col colore di importanza.
Lui di solito era stato abituato in questo modo: verde, giallo, rosso.
Ogni evento che gli capitava ne aveva uno, solo così si sentiva sicuro.
Verde: rischio minimo, massimo piacere nel fare una cosa o incontrare una persona. Tutto bello, nessun pericolo.
Giallo: rischio e piacere di livello medio. Mantenere alta l’attenzione perché potrebbero sopraggiungere alcuni momenti di noia seguiti da brevi attimi di fastidio, ma nulla di ingestibile.
Rosso: ogni cosa portata allo stato di emergenza più alto. Da evitare assolutamente e se non possibile, ridurre al massimo l’indice di rischio.
Ora però il suo corpo si trovava a reagire in modo smisurato a fronte di ogni decisione e di ogni avvenimento.
Pensò fosse andato in tilt perché ogni stimolo dall’esterno veniva automaticamente etichettato di rosso; che si trattasse di acquistare un paio di jeans, a qualunque mail di lavoro, fino al decidere se vivere o morire.
Era diventato tutto tremendamente serio e tremendamente difficile da affrontare.
Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, ma non sapeva con chi e soprattutto pensava di non riuscire a rendere al meglio lo stato d’animo che ormai lo accompagnava da molti mesi. Troppi mesi.
Provò a lasciar correre, con la speranza che fosse solo un momento come si dice in questi casi. Tentò anche di distrarre la mente con attività di depistaggio, ma si rese conto che la situazione stava degenerando quando dopo ogni caso che fino a poco tempo prima avrebbe tranquillamente etichettato col verde, gli procurava una fatica sconosciuta, seguita da un crollo emotivo e fisico degno dei postumi di un trauma o di una brutta influenza che non lasciava il suo corpo.
Faceva fatica a compiere qualunque gesto ritenuto normale, sebbene non sapesse bene chi avesse deciso che un evento o un’azione da qui, a qui fosse da considerarsi livello di normalità.
Ogni punto di riferimento era saltato, non riusciva più a controllare il dosaggio delle emozioni e le reazioni che il corpo gli restituiva.
Vedeva se stesso come un organismo alieno non abituato ad abitare un involucro fatto di mille manopole, pulsanti, leve e livelli che comunemente viene chiamato essere umano.
Si era trovato a conoscere una stanchezza mai provata prima, pregustare un riposo meritato e vedersi sdraiato al buio con gli occhi spalancati verso il soffitto a rimuginare sulle cause di quel risveglio improvviso e irreale.
Affrontava con una sottile preoccupazione il mutamento repentino degli stati d’animo che gli causava non poco stress.
Spesso si sentiva come un liquido incapace ad adattarsi al suo contenitore. Accusava un peso eccessivo dei pensieri, delle parole, delle azioni.
Non potendo più valutare nulla attraverso il metodo funzionale delle etichette e dei colori, provò a trattare coi rapitori che tenevano in ostaggio quel se stesso che tutto sommato apprezzava e al quale si era affezionato, avendoci convissuto per l’intera vita.
Provò con la massima diplomazia e pazienza a indagare sulle reali cause, le possibile soluzioni e i necessari compromessi.
Si ritrovò di fronte un muro di dubbi, risposte vaghe, molti nemici immaginari che sembravano remargli contro, nascondendo le risposte in sottili banchi di nebbia che gli davano l’impressione di vedere al di là, salvo poi non riuscire a mettere veramente a fuoco nulla.
Stava entrando in una fase di consapevolezza nella quale considerava un fatto centrale e ormai assodato, accompagnato però da un secondo punto, meno piacevole: la vita che viveva, quella fase almeno, stava terminando – forse lo era già, ma lui ancora non lo sapeva – e il suo corpo e la sua mente glielo stavano gridando a squarciagola.
Il secondo punto, quello spiacevole, riguardava il tempo.
Impegnarsi in cose non piacevoli, sopportando gli sforzi, investendo una dose maggiore di pazienza, calcolandone il potenziale fallimento a fine gara e sperando di ottenere un successo che in fondo, sinceramente, sembrava quasi una questione di principio più che di vero interesse, veniva contenuto in un lasso di tempo.
Un giorno, una settimana, un anno. Come in una gara, nella quale si conosce la distanza che separa la partenza dall’arrivo.
Qui invece non esisteva una durata. Lo sforzo necessario gravava di un ulteriore carico dato dall’impossibilità di definire una fine.
Si era immaginato un addetto alle consegne di un grande magazzino che riceve l’incarico di prelevare una lavatrice e consegnarla a un cliente.
Un lavoro di routine, compiuto da una persona abituata a svolgerlo.
Solo che per compiere questa consegna, è costretto a percorrere una strada in salita, troppo stretta per il furgone; così il poveretto si arma di pazienza, si carica l’elettrodomestico sulla schiena e prosegue a piedi, aggiungendo una buona dose di sforzo alla già scomoda situazione.
Ciò che però non ha previsto è la lunghezza di quella strada e il motivo è semplice: questa volta non può sapere quando sarà arrivato a destinazione.
Non molla perché non è quel tipo di persona, anche se la tentazione è più forte a ogni passo e crede in ciò che sta facendo, ma il peso sulla schiena inizia a essere molto e le sue convinzioni iniziano a mostrare delle fitte crepe.
Per il momento continua a camminare, ma non sa per quanto ancora potrà resistere.