Una goccia non cade mai due volte

Devo avere bevuto male ieri sera.
Il corpo mi suggerisce intuizioni che la mente non lascia nemmeno di un passo oltre la soglia del minimamente preso in considerazione.
Mi alzo a fatica dal letto. Lo stomaco vorrebbe un requiem dedicato.
L’abitudine richiede che dopo aver fatto pipì, mi controlli la faccia allo specchio mentre le mani si azzuffano sotto l’acqua come giovani Labrador e che guadagni la cucina per la colazione.
Il caldo inizia già a minacciare la mia sopravvivenza e un bicchiere di Estathé alla pesca, per il tempo necessario a ogni sorso, mi illude di essere il rimedio a tutto.
Bastasse questo.

Mi vesto a fatica, come ogni azione recente nella mia vita. Vorrei pensare di poter scappare via, altrove, ma anche quel pensiero ha troppo peso sulla forza di volontà.
Mi trascino sciabattando le Birkenstock e di prendere la metro non ne ho voglia. Ma chi ne ha.

Come è possibile che già così presto la gente sappia di pattumiera e posaceneri mai svuotati.
Il mio vagone non ha l’aria condizionata di una cella frigo e mi accontento, perché la soddisfazione risiede nei particolari.
O forse era Dio? O magari il Diavolo? No, quello era nei dettagli. E negli ultimi mesi deve essersi divertito molto.

Se vuoi fare ridere Dio, fai dei piani.

L’estate è il contenitore di ogni risentimento. Ma un lato positivo questo caldo soffocante lo possiede: riesce a sciogliere le maschere di cera, rivelando il vero volto.
Rotaie interrotte e deviazioni continue. L’universo mesi fa tentò di lanciarmi contro segnali e li avrei anche compresi se solo a volte le necessità andassero oltre il ragionevole dubbio.
Il sole filtra da un vetro sporco coperto di scritte. Lo sferragliamento condisce il tappeto sonoro dei pensieri. Chi sale a bordo di un tram troppo pieno, non vede, non pensa. Si muove in automatico. Troppo rischioso domandarsi “e se…” Mai farlo, specialmente di prima mattina. Meglio lasciare la mente a briglia sciolta solo qualche ora dopo il tramonto. Il buio è da sempre complice degli audaci. Angoli ciechi nei quali la ragione non ha il senso dell’orientamento. Minuscoli anfratti dove nascondere pensieri troppo liberi per essere condivisi. Uno stato di ebbrezza lisergico capace di curarti se solo fossi capace a controllarlo. Ma chi può ammaestrare il fulmine, chi silenziare il tuono.
Lasci andare, lasci fare all’istinto e preghi il tuo dio che ti porti dove senti ancora un battito, un sussulto a testimonianza che dentro qualcosa di vivo ancora scorre; che ciò che occupi non è una scatola inerme; che ciò che chiami anima ha ancora un orizzonte da rincorrere.


L’Oceano esiste anche se non lo puoi vedere oltre questi palazzi?
Il cielo è davvero azzurro da qualche parte?

Quando imbocco la strada percorsa per anni, ricompare la nausea primordiale. L’animale che mi abita si impunta, graffia le pareti interne. Sapeva sarebbe capitato ancora, ma l’istinto è qualcosa di ancestrale che attende fino allo stato di emergenza.
Ora ulula, gratta, si contorce tra le budella. Scalcia per non farmi procedere, implora con ogni segnale che conosce di non andare oltre. Io so che ha ragione, non ha mai lavorato contro. Ha taciuto per anni, fino a quando l’ho nutrito a dovere, il demone è stato mansueto.
Quando ha ricominciato a contorcersi? Da quale momento non siamo stati più complici? Quale l’evento che ha separato i nostri percorsi? Credo di avere una risposta, se non esatta, almeno in parte soddisfacente.

Varco la soglia con lo stomaco in subbuglio. La fronte madida e il respiro che inciampa.
So che tra poco si tranquillizzerà. Perché ho imparato col tempo alcune tecniche per distrarlo: piccoli trucchi che lo tengono a bada fino a sera. Qualche volta anche per lunghi periodi. Ma questa volta non sta andando come previsto. Non so se sia il caldo, la stanchezza o altro, ma deve aver capito e non gli basta più. Ha fame, voglia di prendere il sopravvento, ottenere il controllo.
Ho paura di lasciarlo fare, perché ne temo le conseguenze. Averlo tenuto sotto chiave per così tanto tempo è stato un errore. Ma sento che non posso più continuare così. Una parte di me vuole sapere, con la curiosità di lasciarlo fare.

Mantengo una facciata neutrale almeno per gestire chi ho di fronte: una immagine proiettata che tranquillizzi gli spettatori. Rimanere coerenti negli anni è uno zuccherino balsamico per chi ti sta attorno: appena cambi leggermente traiettoria, levandogli un punto di ancoraggio, trasale in loro una espressione di spiazzamento mista ad accusa e delusione. Se non cambi saprò di poter definire i tuoi contorni, saperti certo e prevedibile, come una boa di cemento. Poiché l’evoluzione fa paura.

Bevo un caffè orrendo e mi domando perché continui ad autoinfliggermi consuetudini che non mi appartengono. E più lo faccio, più lo sento ridere di me, il demone, che ora sembra più divertito che agitato. Riprendo a fare cose che chiamo lavoro ma che hanno il disinteresse di tutti: mandanti ed esecutori. E il sapore che lascia in bocca questo pensiero è peggio del caffè. Avvilente e insignificante.
E lui continua a ridere sguaiatamente e lo sento che mi osserva da dentro domandandomi per quanto ancora dovremo andare avanti con questo teatrino. Quante altre prove mi serviranno a mettere a fuoco la porta di uscita.


È un demone bambino, capriccioso e monotematico: a lui non importa che giorno sia, chi siano i miei amici, quale il mio lavoro, quali i miei impegni. Non gliene importa se abbia o meno tempo da dedicargli.
A lui interessa solo essere e per farlo ha bisogno necessariamente di me, perché solo assieme avviene la magia. Quando è in disaccordo mi lascia fare per un po’ illudendomi che stia percorrendo la strada corretta, poi interviene con piccoli avvertimenti, leggeri fastidi, avvisaglie di tafferugli in procinto di sfociare in rivolte. Quando la mente non è più abbastanza, arriva a colpire il corpo: il crollo fisico. Letteralmente inginocchiato di fronte all’evidenza. La fronte sudata, la faccia calda, i brividi lungo la schiena, le ossa che tremano. Il respiro aumenta di intensità, il cuore accelera, una folata di vento gelido ed è blackout. Non c’è soluzione se non la sua onestà decisa che ha come unico obiettivo ricordarmi chi sono e che il fastidio che viene a trovarmi ogni mattina non va ignorato, ma serve a comprendere che non sto facendo la cosa giusta.

L’occhio della provvidenza che ho sul petto, sembra essere comparso per mano di un disegno preciso e anche se ho deciso io il dove e il quando, ora so che non è stato per caso.
Ma chi ha mai creduto alle coincidenze.

Una bussata al vetro, una conversazione in presenza di persone senza spina dorsale, un soffio acido di zolfo ed ecco qui: la risoluzione a mesi di giochi psicologici, la conclusione a tutto; anni di dubbi, pensieri disorientati che hanno messo fuori asse l’ago della bussola: soppressione del ruolo, tre semplici parole per chiudere la faccenda.

Sono leggero, quasi sollevato. Quando l’inevitabile si incontra col giusto il risultato è una leggera, breve brezza che sa di salsedine.
Rapido come una iniezione, una scheggia estratta in un amen e mi ritrovo nello stesso punto, con le stesse persone, ma è già tutto diverso. Io sono diverso. Ma dovrei dire noi perché il demone pare tranquillo, è silenzioso, non si agita più. Non scalcia e non graffia, ma è lì. Io so che è lì; lui non mi lascerà mai, ma lo sento diverso.
Ciò che è accaduto in quella stanza è stato catartico. Fino a un anno fa la mia reazione sarebbe stata di pura rabbia, seguita da vergogna e insoddisfazione. Ora la calma e la logica hanno prevalso: abbiamo collaborato, forse per la prima volta.
Lo sappiamo entrambi e ce lo stiamo dicendo usando un linguaggio intimo che non necessita di parole.

Ora serve tempo. Mesi. Giorni. Ore. Minuti. Secondi.
Serve rivalutarlo, ridefinirlo, rinominarlo fino a controllarlo. Camminare ad un nuovo ritmo, con un passo conosciuto. Tornare a riconoscere il volto allo specchio, sorridergli e salutarlo come un vecchio amico ritornato da un lungo viaggio.
Perdermi nei silenzi propiziatori, nei sogni. Immaginare nuovamente leggerezze finora inconfessabili.
Essere colmo di scariche improvvise di adrenalina, scosso da vibrazioni positive che mi accarezzino.
Tornare a respirare il primo vento.
E più mi perdo, più mi ritrovo.

Riccardo Fano