Siamo metafore incompiute,
riassunti approssimativi.
Siamo meccanismi complessi, alla ricerca dell’ingranaggio mancante.
Il pollice torna ad aprire per la millesima volta il messaggio nell’app e ancora sono incredulo. Dopo anni in cui mi ero convinto che avrei passato il resto della vita solo, ecco la luce. Uno spiraglio di speranza.
Stai calmo. Respira. Non essere precipitoso. Ancora non l’hai incontrata e magari non è il tuo tipo. Forse non è come ti ha raccontato nelle lunghe chiacchierate in chat.
Devo restare lucido e tranquillo, altrimenti inizio a sudare, fare gaffe una dietro l’altra e rovino tutto.
Riguardo l’ora: le tre e venti. Domani mattina sarò uno zombie, dovrei dormire. Ma chi ha la voglia di dormire. Andrei a ballare da quanta energia e felicità ho in corpo.
E pensare che all’inizio nemmeno volevo iscrivermi. Tutto merito di Rudy. Anzi gli scrivo per ringraziarlo, tanto sarà sveglio.
Marika mi ha finalmente chiesto se ci vediamo di persona, domani sera. Non sto più nella pelle! Volevo ringraziarti per avermi convinto a iscrivermi a Lovers. Domani ti racconto bene tutto.
Già me la immagino al bancone, col rossetto rosso in tinta con le scarpe. E io che metterò in mostra la mia cravatta a righe blu, mi avvicinerò a lei e per la prima volta ci guarderemo negli occhi e parleremo. Devo cercare qualcosa da mettermi che stia bene con la cravatta e che la faccia risaltare, perché se per caso non la vedessi io deve essere lei a riconoscermi in mezzo ad altra gente. Non vorrei certo perdermi l’occasione della vita per colpa di una cravatta.
Che strano però che abbia scelto proprio quello come elemento riconoscibile. Perché non qualcosa di più evidente: un cappello, oppure un fiore all’occhiello della giacca, come in un classico in bianco e nero. Resta concentrato! Parlavamo del vestito. Dicevamo il completo blu.
Già che di dormire non se ne parla, tanto vale portarci avanti con i preparativi.
Dovrei averlo in questa parte di armadio e dovrebbe essere lavato e stirato dall’ultima volta. Sì. Molto bene. E questo problema è stato risolto.
Camicia. Io direi bianca che non si sbaglia mai; l’ho anche ritirata prima dalla lavanderia, quindi direi più che perfetta. Per calze e scarpe non ci sono problemi. Manca la cravatta.
Fammi rileggere con attenzione: una cravatta a righe blu.
Ma il blu è per le righe o per la cravatta?
Perché sono due cose diverse. Sono proprio due cravatte diverse e sono dettagli così che rovinano i piani. Vedi?! Lo sapevo che mi sarei fregato con le mie stesse mani.
Ragioniamo.
Cosa faccio, le scrivo? Così sono sicuro e ci leviamo il pensiero. D’altra parte è lei che ha scelto proprio la cravatta a righe, saprà anche com’è fatta questa cazzo di cravatta.
Ma certo! Alle tre e mezza mi metto a scriverle se il blu è della cravatta o delle righe. Bravo, bella figura di merda. Poi lamentati che sei solo.
Respira che stai andando in paranoia. Tutto a posto. Respira, con calma. Va tutto bene.
Facciamo così: lasciamo che sia il caso a decidere. Lancio della moneta.
Testa cravatta blu a righe, croce cravatta a righe blu. Croce. E righe blu siano.
Bene. Ottimo. Anche questa è risolta.
Non manca più nulla. Posso andare a letto e sperare di addormentarmi.
Non vedo l’ora sia domani sera. Speriamo bene.
Ma sì che andrà bene, alla fine ci siamo raccontati qualsiasi cosa negli ultimi mesi, possiamo dire di aver rotto il ghiaccio già da un bel po’. Sarà naturale. Sarà tutto perfetto. Sarà la volta buona, me lo sento.
Cazzo, ma io non ce l’ho una cravatta così!
Arrivai in ufficio prima del solito. Mosso da una sensazione di fretta che continuava a non abbandonarmi. Dovevo trovare la cravatta per questa sera e per farlo, occorreva chiudere tutti gli impegni della giornata entro pranzo. Non sapevo bene come avrei fatto, ma non avevo alternative.
Rudy come sempre era arrivato con calma e in ritardo. Si è sempre comportato come se l’azienda fosse la sua e non dovesse rendere conto a nessuno. Non so come riuscisse a comportarsi così senza provare rimorso o paura delle conseguenze.
Allora è andata bene, eh?! Mi disse prima ancora di appoggiare il casco dello scooter sulla scrivania. Gli spiegai immediatamente il problema che mi attanagliava. E che problema c’è. Mi rispose. Ti prendi mezza giornata e vai.
Il modo in cui risolveva con superficialità ogni cosa mi irritava. Per lui tutto era facile. Tutto un che problema c’è, che te ne frega, e quindi?! E te lo diceva con quella espressione da ebete come a lasciare intendere tra le righe della risposta quanto tu fossi un cretino ad esserti posto anche solo per un secondo il dubbio che quello sarebbe potuto essere un problema. Era uno di quei momenti in cui avrei preso quel casco e glielo avrei scagliato in mezzo alla faccia. Ma mi limitai ad annuire con la testa, ma lui era già dai ragazzi del marketing a parlare della partita di ieri sera. Erano le dieci e un quarto e non aveva nemmeno acceso il computer. Tanto esistevano imbecilli come il sottoscritto a riempire i vuoti lasciati da personaggi come lui. Parassita ingrato che non è altro.
Per il meeting delle undici abbiamo tutto vero? Mi chiese guardando lo schermo del telefono.
Certo, tutto pronto gli risposi sapendo già che non gliene frega nulla, perché aveva già dato per scontato che la presentazione di cui doveva occuparsi l’avevo rivista io ieri e l’attenzione era già altrove.
Dovevo concentrarmi sulle priorità della giornata. Avevo tre negozi in cui potevo cercare la cravatta.
Erano tutti sparsi per la città, ma se avessi avuto fortuna col primo, avrei potuto addirittura chiudere la faccenda in poco tempo e avrei anche potuto usare quell’avventura come argomento di conversazione con Marika, in caso le cose avessero buttato male. Cercherò di farla ridere e capirà quanto tenga a lei, pensai. Ma senza sembrare un disperato. No, quello no. Altrimenti diventerà una scena penosa. Divertente, ma non sfigato.
Ripensai alla prima volta che ci scrivemmo. Non mi era mai capitato che una donna mi contattasse per prima. Non sapevo cosa dire. Ero iscritto all’App da poche settimane e faticavo ancora a capire come funzionasse. Sembrava tutto troppo veloce, troppo asettico.
Rudy mi spiegò che l’algoritmo ti mostrava alcune foto di profili compatibili con i tuoi interessi e dovevi decidere tra icona verde o rossa se ti piaceva o meno. Lei faceva la stessa cosa e se combaciavano due verdi avreste potuto parlare in chat.
Lui lo faceva da tanto e garantiva che in poco tempo mi sarei fatto delle scopate epocali, così le aveva definite, che mi avrebbero fatto scordare di Francesca. Non ne ero così sicuro, ma tanto valeva provare.
Lasciai da parte i dubbi sulla superficialità del sistema e in pochi giorni scartare o accettare divenne un passatempo al pari di scrollare Instagram, guardare video stupidi o leggere i titoli delle news.
Ero molto selettivo sui profili a cui dare il verde, perché mi soffermavo sui particolari, leggevo attentamente la biografia, sondavo gli interessi. Cercavo di immaginarmi la voce, il profumo che usava. Era complicato farsi andare bene tre foto a caso. E se poi non fosse mai stata veramente così dal vivo?
Quando mi sono trovato a dover scegliere le tre foto da inserire nella biografia ho tentennato: in molte non mi riconoscevo esattamente per ciò che sono. In altre mi rivedevo in ciò che non ero più. Non mi andava di raccontare una parte di me stesso alla quale non ero più legato e che poteva colpire qualcuno costringendomi a dover ripescare quel vecchio me.
«Ma son tutte cazzate» mi aveva risposto Rudy. «Cosa vuoi che ne sappia una chi eri e cosa facevi in quella foto. Quelle servono solo per colpire l’attenzione e invitarle a dare il verde. Devi scegliere le foto in cui sei più figo e scopabile, sta tutto lì il gioco»
«Però questa che hai scelto è di quasi dieci anni fa. Non sono più così»
«E chi se ne frega!» mi ha risposto subito. «Sei abbronzato, sei su una barca a vela, il messaggio che io leggo senza sapere nulla è che sei uno spirito avventuroso, che ami il mare e che magari la barca a vela è pure tua e che quindi sei pieno di soldi. Alle donne basta».
«Ma io soffro anche il mal di mare, quella era la prima volta che salivo su una barca. Era stata Francesca a organizzare con i suoi amici la vacanza. Al primo leggero mare mosso ho avuto un attacco di nausea. La prima notte l’ho passata a vomitare. La mattina dopo abbiamo fatto un cambio di rotta e prima di pranzo eravamo già sbarcati».
«Ma vedi che sei negativo, io te lo dico sempre, ti preoccupi troppo! Adesso spiegami, cosa cazzo te ne frega di quello che è successo in realtà. La foto è bella, racconta una storia che non sarà totalmente vera, ma può essere ancora utile, perché non usarla dico io! Poi quando uscirai con qualcuna che ha abboccato sceglierai cosa raccontarle. Non devi dire tutto, solo quello che ti serve per chiudere la serata. Perché pensi che dell’altra parte loro giochino pulito?»
«Ma tu come fai?»
«Ma è molto semplice», mi disse dopo un lungo sospiro, mentre aveva estratto il telefono dalla tasca mostrandomi l’app già aperta.
«Guarda le mie foto. E nota che ci ho messo giorni a selezionarle con cura, non ho tralasciato nessun dettaglio, perché quando mi ci metto sai quanto posso essere focalizzato».
Mi rendo conto che se avesse dedicato un quinto di quella dedizione al lavoro sarebbe come minimo amministratore delegato dell’agenzia in cui lavoriamo.
La prima foto lo ritrae al tramonto, sorridente, in una camicia bianca che faceva risaltare un’abbronzatura forse un po’ troppo artificiale, a bordo piscina, mentre regge in una mano un cocktail e con l’altra fa lo Shaka. E poi arriva il suo commento: «qui lei vede che mi piace divertirmi, che mi piacciono i bei posti, la bella vita, ma che alla fine sono uno che se la scialla, non tipo quei rigidoni che vediamo in quest’ufficio.
In questa qui invece» e scorre col pollice sulla seconda immagine, «che sono anche una persona seria, affidabile. Un grande lavoratore, concentrato sui propri obiettivi»
La foto lo ritrae in completo scuro, con occhiali neri e l’espressione raccolta in concentrazione.
«Rudy, ma quello non era il funerale del presidente l’anno scorso?»
«E di nuovo ci sei cascato. Ma cosa te ne frega di quello che era o non era. La foto cosa dice? Dice tutto questo perché è tutto questo che voglio raccontare. Stop.
E poi con quello che mi è costato il vestito, ti pare che non lo sfrutto fino alla fine?»
Mi scopro a fissarlo senza capire bene se il mio sguardo sia di terrore o ammirazione, mentre arriviamo alla terza e ultima foto.
«Questa è un’opera d’arte, ammettilo. Ancora adesso non credo nemmeno io di aver potuto tanto»
Lo vedo in una posa di tre quarti, è appeso ad una altezza preoccupante, illuminato dal sole e retto da una fune per arrampicata.
«Ma scusa Rudy, ma da quando fai alpinismo?»
«Ma chi l’ha mai fatto alpinismo, a me la montagna fa cagare e soffro pure di vertigini»
«E allora questa foto? Non capisco»
«Dove non puoi arrivare tu, ecco che ci pensa la tecnologia che questa meravigliosa epoca ci ha messo a disposizione. Viviamo o no nel miglior mondo possibile?»
In pratica l’aveva fatta usando una sua vecchia foto e poi aggiustata con l’intelligenza artificiale. Per quanto volessi sembrare contrario a una truffa del genere, ammetto che il risultato era eccellente.
«Ed è proprio grazie a quest’opera d’arte che due sere fa sono tornato a casa con lei» e mi mostra il profilo Instagram di una ragazza bellissima che ad una prima occhiata credevo fosse anche lei il risultato di un algoritmo artificiale. L’unica cosa che mi uscì fu un vergognoso «accidenti! Ma mi sembra di averla già vista da qualche parte»
«Certo caro mio, oltre che nei tuoi sogni, è probabile che l’abbia vista più e più volte in televisione, prima e dopo il telegiornale, o prima e dopo le partite di calcio, o durante un qualunque altro momento. Fa l’attrice bello mio»
«Ma è la ragazza dello spot della candeggina?»
«Yes! Diciamo che arrotonda con le pubblicità perché pagano molto più del cinema. L’arte lo sai che a compensi è stitica, ma mi ha detto che ha in ballo un paio di commedie e una serie di Netflix che le faranno fare il salto. E quando sarà famosa e la vedremo ritirare l’oscar, potrai dire di aver assistito a tutto questo» Rimise via il telefono nella tasca dei jeans, come fosse un cowboy con la sua Colt.
«Caro mio, hai appena visto il maestro all’opera. Ora prendi questi insegnamenti e da buon discepolo falli tuoi e impegnati parecchio che io vado a fumarmi una paglia»
Ancora scombussolato dal mare di idiozie alle quali avevo appena assistito, decisi comunque di applicare quel metodo, ma ci riuscii solo in parte: non mi andava di barare così platealmente, non lo trovavo corretto e non mi interessava se dall’altra parte fosse così, non lo volevo accettare.
Trovai come molte altre volte nella mia vita un compromesso che potesse mettere d’accordo tutti. Tenni la fotografia della barca, la pareggiai con una per la quale avrei potuto sostenere una storia veritiera e decisi di chiudere la terna aggiungendo un fotogramma di Quarto potere, uno dei miei film preferiti, nella speranza che tale immagine funzionasse autonomamente da ulteriore filtro di selezione delle mie potenziali partner.
Poi tornai alla routine quotidiana riprendendomi da quella attività che sentii essere stata insospettabilmente faticosa; non ricordavo quando fu l’ultima volta che dedicai così tanto tempo a me stesso. Fu una riflessione che mi tenne occupata la mente durante l’intero tragitto verso casa.
Sistemai la breve spesa, preparai la cena, lavai le poche stoviglie usate e mi sedetti sul divano alla ricerca di un film con il quale conciliare il sonno, sempre con una parte di mente bloccata a quel pensiero.
Prima di andare a letto feci un ultimo passaggio nell’App, controllando eventuali notifiche e passando in rassegna un ultimo mazzo di profili e mi addormentai a fatica.
Perché quel pensiero continuava a non sparire? Nonostante la mia vita, sebbene abitudinaria, continuava, era sufficiente un piccolo rallentamento dei pensieri, un cenno di stanchezza o un attimo di noia che eccolo riapparire. Come un piccolo demone all’apparenza inoffensivo che mantiene alta la soglia dell’attenzione su di sé comparendo all’occorrenza. Davvero la mia vita era stata fino a quel momento una serie di compromessi volti a non dare fastidio? Quante cose avevo deciso? Quali le scelte che avevo fatto di mio pugno? Non avevo nessuno all’altezza di potermi rispondere.
Fino a qualche mese prima avrei chiesto senza dubbio a Francesca, ma ora non me la sentivo di scriverle o telefonarle per farle una domanda di tale portata. E poi come avrei indirizzato la conversazione? Non era possibile. Non dopo l’ultima volta che ci siamo visti.
Lì avrei dovuto dire qualcosa, tentare di fermarla, cercare di capire perché se ne stesse andando, anziché accettare la sua decisione impotente, rimanendo come un cretino immobile in corridoio mentre lei, a un metro dalla porta di ingresso mi fissava aspettando una reazione.
Ho accettato che la nostra storia finisse in un momento. Senza combattere, senza nemmeno tentare di aggrapparmi all’ultimo lembo di una richiesta estrema.
Sono rimasto lì.
Come quante altre volte. Mentre il mondo mi scorreva attorno, sceglievo di non interessarmi, di non vedere, di non partecipare alla mia stessa vita. E stavo continuando in quella direzione, lasciando che una persona decidesse al posto mio come uscire da una situazione sentimentale prossima allo zero.
Ricordo perfettamente il momento. Eravamo tutti riuniti per l’ennesimo meeting sulla campagna per il lancio di una carne vegetale biologica che avrebbe dovuto imporsi come leader del mercato. Erano state messe sul tavolo un po’ di proposte, molte idee su slogan, packaging, palette colori. Ma era tutto molto caotico, perché il cliente continuava a cambiare idea e, di conseguenza, eravamo costretti a correggere la traiettoria della campagna praticamente due volte a settimana.
Il mio telefono vibrò, si illuminò e comparve una notifica che non avevo mai visto prima. Era dell’App e mi stava confermando una compatibilità con Marika.
Mi agitai, tanto da attirare l’attenzione del resto delle persone nella stanza. Chiesi se potevo uscire un attimo e mi allontanai fino a trovare un luogo tranquillo..
La breve attesa che mi separava dal vedere le sue foto fu un misto di eccitazione e paura. E invece eccola la prima immagine, quella che Rudy mi aveva detto essere il biglietto da visita, quella che scegli come prima posizione è ciò che vuoi dire subito a chi ti vede: eccomi, sono esattamente io, quelle dopo sono altre sfumature di me, ma tra mille fotografie ho scelto questa e ti voglio dire che sono esattamente così, al massimo delle mie possibilità.
Nella sua sorrideva, sembrava avesse gli occhi castani come i capelli che erano mossi e lunghi fino alle spalle. Un sorriso diretto e luminoso, di una che non ha paura a mostrarsi. Il taglio dell’immagine era coraggioso: un mezzo primo piano che lasciava intravedere lo sfondo; sembrava seduta su una sdraio in un giardino durante una domenica con gli amici in una giornata di inizio primavera, quando il sole è tiepido ed è piacevole lasciarsi scaldare appena terminato il pranzo. Aveva un leggero vestito bianco con le spalline, ma non si riusciva a vedere altro. Mi persi in quel viso per non so quanto tempo. Mi comunicava la tranquillità di quelle in cui ci si può stare comodamente in due. Mi accorsi dopo un po’ che non avevo ancora visto le altre che aveva caricato. Strisciai il pollice sullo schermo per passare alla seconda. Era di spalle, seduta a prua di una barca a vela, ad osservare il tramonto. Forse è stato questo il punto di incontro che l’ha convinta a darmi il verde. Non si vedono molti altri particolari. Mi colpirono i suoi capelli mossi dal vento a rivelare quello che al momento mi sembrava parso essere un piccolo tatuaggio sulla nuca, ma la qualità era troppo bassa per capirlo con certezza. Decisi di passare alla terza e mi bloccai per un attimo. Non so se lo avesse o meno fatto apposta. La terza immagine era un fotogramma di Quarto potere. Non riuscivo a credere fosse possibile. Ma non ne ebbi il tempo perché ricevetti il suo primo messaggio. Il primo di una lunga serie.
Trascorremmo quasi un mese a parlare di noi, prima in generale, poi sempre più in profondità. Credevo che l’essere distanti potesse essere un problema insormontabile, ma dopo qualche giorno realizzai che era molto facile riuscire a confidarsi senza avere di fronte un volto e un corpo. Era come parlare a se stessi, ma con qualcuno che però interagiva. Mi sentivo libero e lei riusciva a mettermi a mio agio in un modo mai provato. Sembrava mi conoscesse da anni. Era curiosa di sapere, ma mai invadente. Presente ogni qualvolta ne avessi sentito il bisogno riuscendo a leggermi dentro in modo spesso spiazzante.
Volevo vederla il prima possibile, ma credevo che se avessi fatto io il primo passo avrei rovinato tutto. Ero curioso di sentire la sua voce, di vederla dal vivo, di toccarla, ma al tempo stesso amavo i momenti di quella strana intimità e complicità che si era creata.
Aggiornavo ogni giorno Rudy, che mi chiedeva dei progressi ed era contento per me e non perdeva occasione di informarmi sulle sue nuove conquiste, come la massaggiatrice tantrica con la quale, parole sue, aveva toccato vette del piacere inconcepibili.
Io sorridevo complice, ma gli dissi che un po’ lo invidiavo, perché aveva abbattuto quella barriera artificiale anche se mi ripetevo che il rapporto che c’era tra me e Marika era diverso. Andava più in profondità e non era volto solo al sesso.
«Ma scusa perché non le chiedi se vi vedete? Di cosa hai paura? Magari non aspetta altro»
Gli risposi che temevo di rovinare tutto. Di non essere all’altezza. Mi piaceva quello che avevamo costruito, anche se non sapevo esattamente quanto sarebbe durato e che attendevo fosse lei a fare il primo passo quando si sarebbe sentita pronta.
E dopo una settimana accadde.
Non so nemmeno come ci fossimo arrivati, ma stavamo parlando di cocktail preferiti e di come le fasi della vita ne determinino le scelte.
Quando io e Francesca stavamo ancora insieme il mio preferito era il Dry Martini, forse perché lei mi disse una volta che le piaceva la forma del bicchiere con quella oliva che si vedeva in trasparenza.
Dopo la rottura persi le abitudini che avevo in coppia e ovviamente gli amici acquisiti, che erano di Francesca e che mi lasciarono assieme a lei. La prima sera che uscii dopo più di due mesi mi trovai in un locale appena aperto vicino casa e al momento di ordinare qualcosa da bere, decisi che il Dry Martini non facesse più per me e d’istinto scelsi un Americano. Che divenne il cocktail di questa nuova fase della vita. Marika apprezzò il racconto, ma non volle dirmi il suo. Lì per lì ci rimasi male, mi sentii come tradito dopo tutta quella confessione a porte spalancate. Le chiesi il motivo.
Mi disse che voleva che lo scoprissi di persona. Che secondo lei era arrivato il momento di incontrarci, che voleva sentire la mia voce, vedermi dal vivo e non più immaginarmi attraverso i pochi dettagli di quelle tre fotografie.
Ero felicissimo e al tempo stesso spaventato. Ma decisi che non potevano coesistere due emozioni in contrasto, ne dovevo scegliere una. Scelsi per il felicissimo.
Tra un documento da consegnare e una riunione andata troppo lunga con un cliente, mi accorsi di essere tremendamente in ritardo. Chiusi il portatile, afferrai la giacca e uscii salutando velocemente Rudy. Calcolare il percorso con anticipo, inserendo anche i possibili contrattempi era una abitudine che mi tranquillizzava, abbassava il livello d’agitazione. Prevedere tutto era una specie di ansiolitico psicologico.
Attraversai il primo incrocio come stessi scappando da un incendio e quasi un’auto mi stav investendo.
Camminai con la voce della Mappa nelle cuffie seguendola come si fa con un oracolo contemporaneo. Non vedendo arrivare il tram, accelerai il passo. Osservavo il cielo grigio che minacciava pioggia, ma generava per il momento solo umidità e inizii ad avere caldo.
Al semaforo rosso, controllai sul telefono quanto mancasse all’arrivo. Ero agitato, ma le persone accanto a me non si accorgevano di nulla: l’ansia faceva parte del corredo di chi vive nella mia città.
Tra trecento metri la tua destinazione si troverà sulla destra. L’oracolo parlò.
Vidi l’insegna dall’altra parte del marciapiede. Mi avvicinai. Dentro non c’era nessuno e la porta di ingresso era chiusa. Spinsi la maniglia con più forza. Nulla.
Tra la decina di adesivi mezzi consumati notai solo dopo qualche secondo il piccolo biglietto bianco, attaccato al vetro da un impercettibile lembo di scotch trasparente. La calligrafia era traballante e incerta, il messaggio, contrariamente, imperativo: Torno subito. Sottolineato due volte. Non sapendo quando venne affisso, non potevo prevedere quanto questo subito potesse durare. E la voce dell’oracolo non mi poteva aiutare.
Attesi smorzando l’ansia, che ora era aumentata, osservando la vetrina alla ricerca delle cravatte, portandomi avanti di qualche secondo sulla tabella di marcia.
Non ne vidi esposte. Solo camicie a maniche corte, gemelli con stemmi regali di casate sconosciute e, forse, nemmeno esistenti, bretelle e calze a motivi scozzesi. Spostai lo sguardo oltre la vetrina, lottando con i riflessi e individuai finalmente uno spazio dedicato alle cravatte, ma c’era troppa poca luce e riuscii a malapena a metterne a fuoco i contorni.
Rimasi immobile dando le spalle all’ingresso. Osservai ogni passante sperando fosse la persona che stavo cercando. Tutti mi sfilavano davanti come soldati addestrati e decisi ad abbattere chiunque si mettesse tra loro e la meta predefinita. Visti dal bordo della riva facevano davvero paura. Anche io avrò sicuramente quella facc…
Mi scusi.
Una voce liquida e impolverata mi giunse da sotto il campo visivo.
Abbassai lo sguardo: un uomo con miliardi di capelli bianchi e l’incedere appartenente a un’epoca ancestrale mi stava chiedendo di poter passare. Avevo individuato il proprietario del negozio.
«Buongiorno, certo»
Mi spostai intuendo dalla sua statura perché il biglietto fosse stato affisso ad altezza stomaco.
Mi sorrise con gentilezza, estrasse dalla giacca un enorme mazzo di chiavi e con molta, moltissima calma cercò quella che facesse pari con la serratura.
Mi accodai e attesi. La mano era però incerta e questo complicò l’operazione. Dall’alto riuscivo a vedere tutto e mi accorsi che avere una decina di chiavi tutte identiche e nessun elemento che le differenziasse non era una scelta pratica. Ma qualcosa mi sussurrò che quell’uomo non aveva nessun motivo per velocizzare le operazioni. Per lui il tempo aveva sempre viaggiato in concomitanza con le necessità della sua età, pertanto si era plasmato e piegato a sua immagine e somiglianza e siccome chi comandava era questo lento, pluridecennale, proprietario di negozio, mi sarei dovuto adattare.
Finalmente la pesca miracolosa ebbe successo e la porta si aprì.
Entrambi entrammo seguendo il suo passo e con quel ritmo proseguimmo per qualche metro, per poi deviare, raggiungere con estrema tranquillità l’attaccapanni al quale aggiunse a un cappello già presente, la giacca che indossava, per poi proseguire a piccoli passi verso il retro del bancone.
«Eccomi, in cosa posso esserle d’aiuto»
Solo allora notai che la lentezza nei movimenti non combaciava affatto con la natura dei suoi occhi azzurro profondo, vitali e, contrariamente a quello che avrebbero suggerito, estremamente caldi.
Sotto il naso leggermente arcuato, un sorriso spirituale e contagioso, di chi ha compreso il segreto della vita, ma non ha intenzione di rivelarlo. Provai invidia, poi un po’ di rabbia. Poi solo invidia.
Ricambiai automaticamente il sorriso: ormai le mie espressioni facciali sembravano essere in suo pieno controllo.
«Buongiorno, avrei bisogno di una cravatta a righe blu»
«Molto bene. Ne cercava una in particolare?»
«Non ci avevo pensato. No, basta sia a righe blu»
«Vediamo cosa troviamo»
Si voltò e sparì dietro una piccola tenda di tessuto che iniziò a muoversi come durante il numero di un prestigiatore. E io mi trovai a pregare che la magia avvenisse.
«A righe diceva?»
«Sì a righe»
«Perfetto. Vediamo cosa abbiamo qui»
La tenda riprese a muoversi. Poi si fermò ancora. Si aprì e l’uomo ricomparve senza nulla nelle mani. Socchiusi leggermente gli occhi consapevole che la magia non era avvenuta.
«Ho un dubbio»
«Mi dica»
«Lei mi diceva che le serviva una cravatta a righe blu»
«Sì»
«Ma il blu è per la cravatta o le righe?»
«Dubbio assolutamente comprensibile». Sorrido.
«Righe blu»
Restò immobile mentre processava l’informazione.
«Molto bene» e venne ingoiato di nuovo dalla tenda.
«Vediamo cosa abbiamo qui»
Procedette poi con delle piccole frasi che, sebbene pronunciate sottovoce, riuscivo a sentire.
«Questa no. Questa è bella ma non adatta. Molto elegante questa, magari per una premiazione importante…gran tessuto. Non ne fanno più così» Quindi ritornò con in mano parte della pesca che evidentemente aveva avuto successo e mi tranquillizzai immediatamente. Con la proverbiale calma che ormai avevo assimilato, iniziò ad appoggiare sul banco la prima cravatta e a descriverla: «questa è bellissima, di seta, molto elegante e guardi che punto di blu. Ormai non se ne trovano più così belle».
«È molto bella, ma è tinta unita»
«Sì, molto bella»
«Lo è sono d’accordo, però a me servirebbe a righe»
Mi guardò con un’espressione affettuosa, mi sorrise e riprese.
«Certamente. Guardi questa» ne appoggiò una seconda. «Io questa la vedrei in una serata importante, magari durante una premiazione. Osservi le cuciture, come sono precise. Sono realizzate tutte a mano. Ormai si trovano solo cose dei cinesi, fatte in serie, a macchina» Quando la vidi, sentii la pressione salire, ma espirai profondamente e lo assecondai.
«Anche questa è molto bella e ha ragione, ormai non esiste più una qualità simile, però a me servirebbe una cravatta a righe blu, mentre questa, che ripeto è davvero bella non lo metto in dubbio, è grigia e non ha nemmeno le righe»
«Molto bella, sì. Ma lei voleva quindi una bella cravatta Regimental! Sempre una valida decisione prendere una cravatta Regimental»
«Dunque vediamo. Questa?»
«Questa è rosa»
«Questa invece? È molto bella, trova?»
«Questa è verde con dei piccoli pois gialli.»
«Vedo che ha notato la qualità dei pallini, così piccoli, ma così definiti. Ottima qualità»
«Non lo metto in dubbio, però…» non mi lasciò terminare.
«Lei vuole una cravatta a righe blu»
«Esatto, grazie»
«Questa ha delle splendide righe»
«Sì, ci stiamo avvicinando», dissi mascherando la tensione con un sorriso, però le righe devono essere blu, queste sono verde scuro»
Si immobilizzò un attimo, accarezzò la superficie della cravatta con il pollice, poi riprese.
«Da lontano però potrebbero sembrare blu scuro, non crede? Con la giusta luce»
Compresi di essere entrato volontariamente nel suo campo di battaglia, dove non ci sarebbe stata soluzione di vittoria. Dovevo trovare un modo per uscirne il prima possibile, perché i suoi metodi affabili, ma a senso unico, mi stavano mettendo al tappeto. Avrei voluto rispondergli seccamente, voltarmi e andarmene scocciato, ma c’era qualcosa che mi tratteneva lì, ero stregato. Tentai un contrattacco.
«Lei è molto gentile, però io avrei una certa fretta, mi servirebbe una cravatta a righe blu. Mi sta mostrando delle cose bellissime, ma non mi servono, a me serve una cravatta, il colore può sceglierlo lei non è importante, purché abbia delle righe blu. Di un qualsiasi blu, ma devono essere blu»
«Blu dice, capisco»
Osservò nuovamente il piccolo campionario selezionato che ancora aveva in mano, poi guardò quello rimasto sul bancone. Scosse la testa sconsolato, fece un breve sospiro.
«Mi spiace davvero, ma temo proprio di non avere quello che cerca. Sono davvero desolato»
Capii di avercela fatta, che quella battaglia assurda stava per chiudersi in un modo ancora più assurdo, ma non aveva importanza, ero libero. Forse.
«Ma, mi scusi, ma se era di fretta perché non mi ha detto subito quello che cercava? Avremmo evitato di perdere così tanto tempo e non avrei creato così tanto disordine. Chissà quanto ci metterò a sistemare tutto. Non sono più un ragazzino. Lei non lo può immaginare, ma ogni movimento alla mia età è molto stancante. Le persone non hanno mai le idee chiare: entrano, mi fanno mettere sottosopra il negozio e poi ci ripensano e vanno via, lasciandomi da solo a sistemare. Non è educato, non è carina come cosa»
Continuava con quel soliloquio come fossi già uscito, ma ero lì, in piedi di fronte a lui e oltre a non essere riuscito a ottenere quello che volevo, avevo perso tempo e mi sentivo anche in colpa. Non so se facesse parte di un bluff, o di un piano architettato dopo decenni di prove continue o se fossi solo parte del suo divertimento. Aveva vinto lui, non c’era altra soluzione che chiuderla in un modo solo.
«Ha ragione, quella con le righe verdi è molto bella e a pensarci bene sembrano blu. La prendo»
Mi osservò nuovamente con l’espressione affabile, però ora riuscivo a intravedere in quegli occhi un’ombra luciferina.
«Vede che avevo ragione? Ha fatto una scelta molto giusta. E aggiungerei anche molto elegante. Vedrà che figurone farà. E quando le chiederanno dove ha preso questa meravigliosa cravatta, gli faccia il mio nome, mi raccomando»
Ero esausto e disorientato. Quanto tempo avevo trascorso in quel negozio: mesi? Anni?
A cosa avevo assistito? Cosa era successo? Ci misi qualche minuto a riprendere contatto con la realtà. Avendo bruciato il primo indirizzo, mi rimanevano solo altre due possibilità.
Controllai l’App per sicurezza: nessuna novità da Marika, quindi era tutto confermato e la notizia mi fece tornare il buonumore.
Inserii il secondo indirizzo nelle mappe: troppo lontano per fare la strada a piedi, la metropolitana era l’unica soluzione. Mi rimisi nel fiume di persone che andava nella mia stessa direzione e, come d’incanto, sentii nuovamente calare su di me l’espressione da soldato.
Una deviazione del flusso puntava alla scala che scendeva ai tornelli; mi feci trasportare guidato da una coscienza collettiva che mi proteggeva permettendomi di non decidere per conto mio, lasciare la mente sospesa a riposo. Nel vagone ebbi il tempo necessario per ripensare all’episodio del negozio e alla sua assurdità. Aprii il sacchetto: non era male in effetti, per quanto io non ne capisca nulla di cravatte, dovetti ammettere che era davvero bella.
Avrei potuto usarla in un’altra occasione o regalarla a qualcuno che l’avrebbe apprezzata molto più di me. Sorrisi pensando che avrei anche potuto usare quanto accaduto come aneddoto, in caso la serata avesse subito dei silenzi imbarazzanti.
Un’improvvisa curva fece sussultare l’intero treno riportandomi a galla dai ragionamenti. Nonostante l’orario non fosse di punta, eravamo in troppi là dentro.
Quando molti sconosciuti sono costretti a condividere uno spazio troppo ristretto non sanno come comportarsi: non sanno dove appoggiare le mani, né dove indirizzare il punto di vista. Due sguardi possono incrociarsi per qualche secondo fugace, ma se la cosa va per le lunghe, genera imbarazzo, invadenza, paura, rabbia. E stava accedendo anche a me. Mi sentivo addosso il peso di quegli occhi.
Mi voltai ed eccolo lì: una ventina di chili oltre il quintale compresso in un angolo del vagone, con la testa leggermente in obliquo per starci meglio. Lo sguardo bovino e gelatinoso appena sopra la bocca socchiusa in un’espressione tra lo stupito e lo smarrito. Restava lì immobile, un fermo immagine umano.
Non so cosa osservasse, non sono nemmeno sicuro che stesse realmente guardando me, ma mi metteva a disagio. Cercai conforto nella pubblicità di un centro per l’epilazione laser affissa, assieme alle altre, sopra la nostra testa, dove lo sguardo fosse finalmente libero da ogni incomprensione.
Riemersi e tentai di orientarmi. La Mappa mi diceva che mancavano qualche centinaio di metri e che la direzione che credevo fosse corretta era, chiaramente, sbagliata.
La tua destinazione si troverà sulla destra.
Alzai lo sguardo dal telefono. Osservai il negozio. Riguardai il telefono. L’indirizzo era corretto, ma al posto dell’insegna Il Mondo delle Cravatte c’era un rivenditore di sigarette elettroniche.
Sprofondai in un pozzo emotivo fatto di tristezza, sconforto e… basta, solo tristezza e sconforto.
La tasca vibrò.
«Ciao sorellina, come stai?»
«Tutto bene sgorbio, che fai? Sempre dietro a campagna milionarie?»
«Non sfottere dai»
«Va bene va bene, tanto il senso dell’umorismo l’hanno dato tutto a me. Ma cos’è questo rumore di fondo? Non sei in ufficio?»
«Sono fuori per una commissione»
«Addirittura?! Ti sei allontanato da Palazzo prima che il sole fosse calato da ore? Sono come minimo scioccata. Chi è morto?»
«Ma che morto, è che stasera ho un appuntamento, mi mancava una cosa e sono uscito a prenderla»
«Cosa ti mancava, il coraggio?»
«Sara, lo sai che il sarcasmo alla lunga è nocivo?»
«Mai letto nulla del genere. Chi è questa che devi vedere»
«Sara dai che ho fretta, ne parliamo poi»
«Sentilo, fà anche il misterioso, deve essere qualcuno di importante. Ho fatto bene a chiamarti allora, le carte non mentono mai»
«Ma quali carte, ancora con questa cosa delle carte, Sara, sono due mesi che provi a leggerle interpretandole a caso»
«Sai che non è vero. Jodorowsky lo dice chiaramente»
«Va bene, te l’ha detto lui. Perché mi hai chiamato?»
«Te l’ho detto! Stavo leggendoti le carte e ho notato che qualcosa non quadrava, che eri in difficoltà perché non riuscivi a trovare una cosa che stavi cercando. Mi sono incuriosita e ti ho telefonato subito. Avevo ragione, hai visto?»
«Sì, diciamo di sì, come interpretazione è un po’ tirata, ma direi che va bene. Posso andare ora? Ho fretta sorellina, poi devo anche tornare a casa e prepararmi. Ti prometto che domani ti richiamo e ti racconto tutto»
«Promesso?»
«Promesso»
«Davvero?»
«Sara, non ho cinque anni, ti ho detto che ti richiamo. Quante altre volte l’ho detto e non l’ho fatto»
«Sempre»
«Vero, hai ragione, ma questa volta prometto che lo faccio e ti racconto tutto»
«Mi fido»
«Brava, nel frattempo chiedi alle carte di portarmi fortuna, che ne ho bisogno»
«Le carte non sono un portafort…»
«Ciao sorellina»
Se si mettono in mezzo anche i Tarocchi è la fine.
Questa interruzione era stata necessaria per tirare un po’ il fiato. Mi resi conto che non avevo ancora pranzato e iniziai a perdere un po’ di colpi.
Mi guardai attorno, alla ricerca di qualcosa di aperto: ristoranti cinesi un po’ sospettabili, un fast food dal nome impronunciabile. Meglio la tavola calda in fondo alla via.
Interruppi il gestore durante l’ennesima pulizia del bancone.
«Buongiorno, posso chiederle un panino e una spremuta d’arancia?»
«Buongiorno a lei, certo che sì. Cosa metto nel panino?»
«Prosciutto crudo e formaggio grazie»
«Non ho il crudo, solo cotto»
«Ha preferenze sul formaggio?»
«Che formaggi ha?»
«Fontina»
«Solo fontina?»
«Sì ho solo Fontina»
«Allora scelgo la Fontina»
«Ottima scelta. Si sieda pure che le porto io tutto»
Presi posto al tavolino a fianco della vetrina e osservai il traffico da un punto di osservazione ordinario. Non avevo voglia di pensare, mi sarei inventato qualcosa.
Il secondo morso al panino confermò il precedente: in pratica era pane senza nulla dentro. Non me la sentivo di affrontare la cosa a questo punto della giornata.
L’uomo tornò a pulire un bancone che ormai era consumato dallo straccio.
Tutti al mareeee, tutti al mareeee
Entrambi riconoscemmo l’intro di un classico della canzone italiana, ma che terminò prima di manifestarsi completamente.
Lo vedevo attraverso un vetro smerigliato che sfumava ogni dettaglio trasformandolo in un alone gelatinoso, bastarono un paio di passi in avanti e apparse a fuoco: la magrezza lo rendeva molto più alto di quello che avrebbe dovuto essere in realtà e la giacca marrone a quadri e fuori misura ne accentuava lo scheletro.
«Buongiorno Rocco, come procede questa splendida giornata!»
E trasformò quella che avrebbe dovuto essere una domanda in un’affermazione alla quale sarebbe stato difficile dare una risposta sensata.
«Ciao Scolletta, tutto a posto, il solito?»
«Chiaramente mio caro» E lo disse sfilandosi gli occhiali da sole a goccia, si sistemò con le mani gli ultimi lunghi capelli grigi rimasti ai lati della testa, fece una panoramica del locale, mi vide e con un cenno sembrò salutarmi. Ricambiai.
Si appoggiò con disinvoltura al bancone e notai che l’altra mano reggeva una busta gialla, di plastica da supermercato, consumata tanto quanto il proprietario.
«Non c’è niente di meglio di una bella Sambuca dopo il caffè»
«Però il caffè tu qui non lo prendi mai»
«E che c’entra Rocchino te l’ho spiegato mille volte, mica siete capaci voi baristi a fare il caffè. Quello, se permetti, me lo bevo a casa mia che l’ultima cosa che voglio è essere avvelenato. Alla mia età poi sarebbe un colpo basso. Lasciami vivere in santa pace quello che mi resta. E poi la tradizione è la tradizione: caffè, sigarettina e da Roccuccio a bere una bella Sambuca. Mai dimenticare le tradizioni, i giovani d’oggi si scordano tutto, caro mio»
E ingoiò l’ultimo sorso.
«Beh, s’è fatto tardi e devo proseguire. Ciao Rocché, metti tutto sul mio conto»
«Segno, segno, ciao Scolletta»
Questa giornata aveva preso una piega surreale.
Ma lo strano tizio mi aveva ricordato che anche io ero in ritardo e dovevo riprendere la ricerca.
Il terzo e ultimo indirizzo mi allontanava ancora di più da casa e, arrivati a questo punto, non sapevo se sarei riuscito a tornare in tempo, ma non avevo alternative, tranne rimettermi in marcia.
La Mappa mi aveva anticipato che avrei dovuto prendere il tram che stava per arrivare alla fermata più vicina, iniziai quindi a camminare a un ritmo molto più sostenuto del normale, ma lo persi come nelle peggiori intenzioni. Scelsi di interpretare quella che era a tutti gli effetti una catastrofe, in una questione di principio e mi incamminai nella speranza di salire sul prossimo che prima o poi avrebbe dovuto raggiungermi.
Attraversai un lungo viale e mi accorsi che per quanto avessi sempre vissuto nella stessa città e credendola di conoscere, c’erano zone nelle quali non avevo mai messo piede. Ad esempio dove mi trovavo ora. Raggiunsi la fermata successiva; il display luminoso mi avvisava che il tempo di attesa sarebbe stato di nove minuti: troppi. Proseguii.
Avrei potuto scrivere a Marika che l’idea della cravatta era bella, ma che avevo pensato a qualcosa di diverso che mi rappresentasse di più.
Non ci sarebbe stato nulla di male, solo un’idea suggerita con leggerezza che io ho interpretato come un ordine granitico e inappellabile.
Mi domando perché non abbia, invece, scritto un messaggio con una soluzione alternativa.
Avrei potuto farlo in quel momento, ma mi ero fissato col porre fine in un modo o nell’altro a un piano per il momento fallimentare. Una questione di principio che mi stava facendo perdere tempo, energie e pazienza. Mi fermai all’ennesimo semaforo rosso incontrato lungo quella infinita processione.
Sì, le scrivo.
Estrassi il telefono dalla tasca quando vidi dall’altra parte della strada, in una piccola piazzetta, davanti a una chiesetta, contemporaneamente testimone inconsapevole della rivoluzione metropolitana avvenuta attorno e di un potenziale miracolo, un cartello che introduceva il Piccolo mercatino degli artigiani di zona. In qualsiasi altra circostanza non ci avrei fatto caso, ma lo interpretai come un segno che, forse, nemmeno le carte di Sara avrebbero visto. Raggiunsi le bancarelle e, quasi immediatamente, eccola davanti a me. Come fosse sempre stata lì ad attendermi: una splendida cravatta a righe blu. Mi sarei accontentato anche di qualcosa di livello sufficiente, ma superava ogni mia aspettativa. Mettiamola così: se fosse esistito un premio per la cravatta più bella d’Europa e avessi iscritto l’esemplare che stavo fissando, come minimo mi sarei piazzato secondo.
Non chiesi il prezzo alla signora dietro al tavolino. L’acquistai, ringraziai, salutai in maniera oggettivamente troppo sopra le righe, ma necessaria e finalmente potei tornare a casa.
Tutto ciò, mentre il tram che avrebbe dovuto portarmi a destinazione mi passò accanto e io mi sedetti su quello che andava nella direzione opposta.
Ciao Marika, non vedo l’ora di incontrarti. Nell’attesa sappi che indosserò una cravatta meravigliosa. A dopo.
Per il restante parte del tragitto tornai ad analizzare cosa avrei dovuto fare per ottimizzare i tempi ed essere puntuale, se non leggermente in anticipo. Eliminando ogni dettaglio eccessivo sulla preparazione conclusi che avrei dovuto farcela senza problemi, ma solo se non mi fossi perso dietro altri intoppi.
Ma le epifanie ti colgono sempre quando la mente abbassa le difese. E mi accorsi che dalla fretta di uscire dall’ufficio non mi sono solo dimenticato di pranzare, ma ho anche lasciato le chiavi di casa nella cassettiera della scrivania.
Mantenni la calma. Mi incoraggiai, dicendomi che ce l’avrei fatta senza grossi problemi, quindi scesi quattro fermate prima del previsto e raggiunsi l’open space.
I pochi colleghi non in smart working se ne erano già andati. Notai solo la luce del portatile di Gian, lo stagista troppo talentuoso e, per questo, sfruttato senza ritegno e, stranamente, quello di Rudy.
In anni di onorato servizio non l’avevo mai visto in ufficio dopo le diciotto. C’erano tutte le sue cose, ma non lui. Sicuramente avrà uno dei suoi appuntamenti qui vicino e non vuole passare da casa, pensai. Ed era incredibile come riuscisse in ogni situazione a tirare fuori il massimo possibile per se stesso; ci voleva del talento per essere così egoisti, anche se forse l’egoismo non era il termine più adatto. Quando gli racconterò cosa ho passato oggi pomeriggio mi prenderà per il culo per giorni, ma fa niente. L’importante è che abbia avuto successo. E se non fosse stato per lui che mi ha dato una spinta, stasera l’avrei passata come le altre sul divano, davanti alla TV a cercare un film nuovo tra decine di proposte, per poi finire col guardare per l’ennesima volta uno dei soliti cinque.
Decisi quindi di prendere un post-it colorato, di quelli col bordo adesivo che usiamo solitamente per scriverci insulti reciproci, ma scegliendo questa volta di scriverci un banale Grazie.
Senza firma tanto avrebbe capito. E se non lo avesse fatto meglio ancora, così si sarebbe tenuto il dubbio per tutta la sera.
Quando mi avvicinai allo schermo per appiccicarlo, vedi l’App aperta. Intuii che, come pensavo, stava preparando il terreno per la serata. Non capii però ciò che stavo leggendo. Ero confuso. Rilessi.
Come faceva Rudy a conoscere Marika? Ma c’era ancora qualcosa di strano che, sebbene facile, faticavo a voler capire. Perché i miei messaggi erano sul suo computer?
C’era anche l’ultimo che le scrissi poco fa e, sotto, la risposta: Anche io non vedo l’ora, mi sto facendo bella per te. Sono emozionata. A dopo.
Presi il telefono dalla giacca; avevo una notifica.
Lessi la stessa frase ed ebbi freddo. Mi domandai il motivo, mi chiesi il perché. Non trovai risposta, credetti fosse un sogno terribile. Il respiro si bloccò a metà strada. Non seppi cosa fare, tranne provare l’esigenza di fuggire. Alzai lo sguardo e vidi Rudy, immobile e in penombra a metà corridoio.
Guardò il computer, poi me, ma per la prima volta da quando lo conobbi non sapeva cosa dire. Non aveva nessun controllo sulla situazione. Lo fissai a mia volta, ma la voce in me continuava a dirmi di andarmene.
Mi ritrovai all’aperto, materializzato all’improvviso sul marciapiede. Non ricordai gli ultimi secondi trascorsi. Faticavo a respirare. Non avevo voglia di pensare. Non avevo voglia di capire. Non sapevo più nulla.
Mi accorsi solo di quanto si pianga bene sui tram.