La cassettiera con le maniglie dorate.
L’armadio con l’anta socchiusa dalla quale spunta il lembo di una gonna.
Il comodino con gli occhiali da vista, il blister con due pastiglie, la Settimana Enigmistica ferma su un cruciverba corretto a penna.
Il tavolo rotondo del salotto.
Il centrotavola ricamato.
Il cesto di vimini con la frutta: tre mele, due banane, una pera ancora acerba.
Il copridivano fiorato, il tavolino con la cassetta per il cucito.
La cornice con la foto del matrimonio.
Augusto compie l’ennesima lista di ciò che vede: ha sempre pensato di non avere memoria; incolonnare cose gli dà sicurezza.
Si è risvegliato con ancora i vestiti addosso. Lo stesso completo con cui si era sposato quarant’anni fa e che ora ha utilizzato per il funerale di Maria, sua moglie.
Stringe tra le dita il bottone della giacca che gli aveva riattaccato qualche mese prima, quando ad andarsene fu il loro unico figlio.
Non riuscì a reggere.
Il referto medico lo aveva indicato come cardiomiopatia da stress. Il nome tecnico viene dal giapponese: Tako-Tsubo. Scelto perché il ventricolo sinistro assume una forma che ricorda uno strumento usato in Giappone per catturare i polpi. In molti lo conoscono come crepacuore, che rende bene l’idea della sofferenza.
Il vento in faccia
Nella vita si dice che occorra avere un gran cuore. E Manuel lo aveva davvero: soffriva di Cardiomegalìa.
Scientificamente era nato con un cuore troppo grande, che come immagine poetica è efficace, ma che nella vita quotidiana comporta il rischio di morire di infarto in qualsiasi momento. Augusto è ancora sdraiato sul letto quando prova a realizzare l’accaduto. Tenta di rimettere assieme i pezzi di una vita andata in frantumi. I pensieri lo sovrastano.
Il canto degli uccelli.
Il vento che sposta la tenda del salotto.
La luce che entra dalle imposte socchiuse della camera da letto.
Il rumore in lontananza del frigo.
Un cane che abbaia.
Si riaddormenta continuando la lista.
Il Gus, come lo hanno sempre chiamato crede nel lavoro manuale, nella schiettezza e nella semplicità.
Ha trascorso tutta la vita nell’officina di famiglia aiutando il padre assieme ai quattro fratelli. Loro, una volta cresciuti, decisero di andarsene in cerca di fortuna altrove: chi cambiando città, chi addirittura stato. Lui invece rimase.
Il padre Livio considerava la scuola necessaria fino all’apprendimento delle nozioni base: saper leggere e scrivere, con una infarinatura di matematica, che per i conti serve sempre. Il resto era superfluo.
Augusto iniziò a imparare il mestiere di meccanico prima ancora di saper andare in bicicletta e gli piaceva perché erano soddisfazioni immediate: Se una macchina non parte e tu riesci a capire il motivo e risolvere il problema, quella riparte subito.
Crescendo però, le lacune lasciate dagli studi iniziavano a pesare e promise a se stesso che se mai avesse avuto figli, non avrebbe commesso l’errore di suo padre.
A diciassette anni conobbe Maria, che di anni ne aveva due di meno.
Era un pomeriggio d’estate, aveva appena chiuso l’officina e si era seduto al bar della piazza a bere una cedrata con Aperol.
Si stava gustando l’ennesima lite durante una partita di scopa tra i vecchi del paese, quando a prendere l’ordinazione anziché la Jole, si presentò sua figlia: una ragazzina dai capelli nero corvino e gli occhi verdi. Restò sorpreso sia perché non aveva mai visto nulla di così bello sia perché non sapeva che la Jole avesse figli.
Si frequentarono di nascosto per molto tempo perché tutti in paese avevano paura di quella donna che aveva trascorso la vita gestendo un bar, crescendo da sola una bambina e conoscendo ogni brutta inclinazione del genere maschile.
Gus la temeva come una brutta malattia e cercava di starle alla larga.
Promise però a Maria che l’avrebbe sposata dopo il militare e così fece: al suo ritorno, non passò nemmeno da casa a posare la valigia; ancora in divisa andò dalla Jole a confessare il suo amore per Maria e l’intenzione di stare con lei per tutta la vita.
Lo fissò per qualche secondo senza dire nulla, poi chiese a sua figlia «Sei convinta di sposarti questo qui?»
«Si mamma».
Tornò a guardare Augusto: « È l’unica figlia che ho, se vengo a sapere che la tratti male ti sparo».
Gus deglutì e balbettò qualcosa che sembrava una promessa.
Si sposarono di giovedì pomeriggio nella chiesa della piazza con le valigie pronte per il viaggio di nozze che aspettavano nella Fiat Cinquecento di suo padre.
In realtà era del geometra Vitti che l’aveva portata in officina per la revisione, ma siccome era pronta prima del previsto, Livio pensò che sarebbe stato un bel regalo di nozze prestarla ai ragazzi per il loro viaggio.
Marina di Cervia, pensione completa, quattro giorni tre notti.
Uno dei ricordi più belli. Loro che il mare non l’avevano mai visto.
Si erano amati fin dal primo istante. Come nei film italiani in bianco e nero. Merce rara.
Augusto prese in mano l’officina, mentre Maria continuò a lavorare nel bar di sua mamma fino a che non rimase incinta di Manuel.
Tre chili e cinquecento grammi.
Il prete al battesimo disse che il bambino aveva un cuore grande per il troppo amore dei genitori nel desiderarlo e che non ci si doveva preoccupare. In realtà la preoccupazione c’era anche se la sua vita fu quasi normale.
Fu difficile spiegargli perché non potesse giocare a pallone tutto il pomeriggio come gli altri bambini o correre in bicicletta lungo i canali, ma per fortuna si innamorò del lavoro di suo padre e appena ne aveva occasione trascorreva i pomeriggi a guardarlo smontare e rimontare motori di automobili e motociclette, mentre gli passava gli attrezzi giusti. E intanto imparava, chiedeva, si informava.
Trascorrevano gli anni e Gus mantenne la promessa di farlo studiare: scuola media, liceo e poi persino Università. Scelse la facoltà di ingegneria e decise di farla a Bologna, per poter essere vicino a casa e tornare nei fine settimana a continuare il progetto che avevano in cantiere.
Augusto aveva un terreno non troppo distante da casa dove coltivava un orto, piccolo ma ben fornito: insalata, pomodori, zucchine, cipolle, patate. Aveva provato addirittura a seminare il melone retato che col prosciutto crudo era la morte sua, ma con scarso successo.
Quando staccava dall’officina, si rilassava così: da uomo abituato al lavoro manuale gli serviva un’attività per il tempo libero che lo tenesse in movimento.
Quel terreno era di proprietà di un contadino suo amico d’infanzia che glielo aveva ceduto volentieri.
Manuel ogni tanto gli faceva compagnia. In un pomeriggio come tanti gli capitò di vedere nel fienile la carcassa di uno dei primi modelli di FIAT Panda. Sfidò suo padre dicendo che quella macchina non sarebbe mai stato in grado di rianimarla.
Dopo qualche scambio di battute, la cosa si fece interessante e partì la scommessa: Gus l’avrebbe rimessa su strada a patto che Manuel gli avesse dato una mano. Il contadino era ben felice che gli portassero via quel rottame. Un po’ meno le galline, che nel frattempo ci avevano costruito casa.
Quando tornarono a prenderla col carroattrezzi, si accorsero che le condizioni erano abbastanza disperate, ma la decisione era stata presa e un uomo non si rimangia la parola data.
Distribuzione / Spinterogeno
Guarnizioni portiere + baule
Collettore
Filtri
Batteria
Centralina
Iniziò da questa lista per recuperare i primi ricambi.
Impiegarono un intero fine settimana a smontare gli interni e pulirli a fondo, disinfettando ogni singolo centimetro.
Trovarono piume e cacca di gallina nei posti più impensabili, ma con olio di gomito, poche pause e tanto impegno completarono l’opera in tempi da record.
Manuel preparò i bagagli per rientrare a Bologna col treno, Gus lo accompagnò come sempre alla stazione, lo salutò e tornò a casa da Maria in tempo per la cena.
Non erano tipi da televisione; i casi in cui veniva accesa erano per un’unica edizione del telegiornale, Sanremo e quando giocava la Nazionale.
Dopo aver lavato i piatti e sistemato la cucina, Maria si sedeva sul divano a terminare qualche rammendo lasciato in sospeso o a fare La Settimana Enigmistica che portava con sé prima di addormentarsi.
Gus seduto in poltrona, inforcava gli occhiali da vista, finiva di leggere il giornale con le notizie ormai passate sorseggiando una Sambuca.
Poteva accadere che ripassasse le attività del giorno dopo e, per paura di dimenticarsi qualcosa, compilava una lista delle priorità.
Prima di andare a letto capitava che recitasse a Maria una delle barzellette tratte dal suo repertorio.
Era molto bravo, aveva i tempi comici necessari per coltivare la risata a fine racconto.
Non era della scuola dei dialetti forzati, delle voci contraffatte, dei tic nervosi: lui le barzellette le maneggiava mutando leggermente i toni della voce, mimando poche ma necessarie espressioni facciali per sottolineare un preciso stato d’animo.
Un barzellettiere minimalista che lavorava per sottrazione.
Un vero professionista. Amici e parenti avevano cercato di convincerlo per anni a partecipare a trasmissioni televisive a tema. Aveva sempre declinato: non cercava fama e successo, gli bastavano quei pochi minuti di divertimento.
Maria, nonostante molte di quelle barzellette le avesse sentite decine di volte non riusciva a trattenere le risate. Spesso attendeva il momento della battuta finale, come l’ultima coreografia in uno spettacolo pirotecnico.
Le era capitato di addormentarsi a luce ormai spenta, ridendo fino alle lacrime.
Il tramonto dopo una giornata di lavoro
Raggiunsero il Policlinico la mattina presto, dopo aver ricevuto la telefonata di Pietro, uno dei coinquilini di Manuel. Con un tono tranquillo e per nulla allarmante informava Maria che Manuel non era stato molto bene, era pallido e debole. Avevano chiamato per sicurezza un’ambulanza ed ora era in ospedale per alcuni accertamenti, ma che stava già meglio. Gus prese immediatamente la macchina e assieme lo raggiunsero.
Era vero si stava riprendendo, ma era comunque ancora debole.
Il medico, a conoscenza della sua malattia, li tranquillizzò dicendo che poteva accadere, specie in un periodo di stress come gli esami universitari e che necessitava di un po’ di riposo.Lo portarono a casa con loro.
«Babbo, a che punto è la macchina?»
«Direi bene. Mancano ancora molte parti di ricambio, ma ho già trovato degli sfasciacarrozze che possono recuperarli e ce li danno gratis. Non sono tutte parti originali, ma andranno benissimo».
«Ok, allora in questi giorni ti do una mano».
«No, tu non mi dai niente. Te ne stai bello buonino a riposo che nessuno ci corre dietro».
«Ma non c’era bisogno di preoccuparsi, è che tra lezioni e due esami che sto preparando sono un po’ stanco. Capita, non è successo niente, non c’era bisogno che venissi con voi».
«Manuel lo sai che io e il babbo siamo più tranquilli così. Ti sei portato i libri, tra qualche giorno riprendi a studiare e al resto ci penso io».
«Ok».
Si addormentò come un sasso appena toccò il cuscino e dormì ininterrottamente per quattordici ore. Uno di quei sonni dritti, pacifici, senza sogni.
Al risveglio, ci mise qualche secondo per capire che non si trovava nella stanza a Bologna, ma in quella che era stata la sua camera per la maggior parte della vita.
Si mise seduto, con gli occhi ancora socchiusi cercò coi piedi le ciabatte che sembravano inafferrabili, andò in bagno e scese al piano di sotto per la colazione. Sorseggiò il caffelatte nel cortile di fronte casa.
Era cresciuto negli spazi grandi di una campagna che sembrava anni luce distante dalla città.
Un’isolamento che per alcuni può sembrare forzato e doloroso, ma che per lui è sempre stato di conforto. Una preziosa protezione dal caos, dalla folla, da un’idea malsana di inseguire una fretta che, per definizione, era come le sue ciabatte: inafferrabile.
Aveva deciso per ingegneria, non era ancora sicuro sulla specializzazione, ma fin da quando era ragazzino aveva l’idea che la meccanica non mentisse e che ci fosse ancora molto da scoprire.
Quella decisione andava però ben oltre il suo percorso formativo personale: gli piaceva poter tornare a casa e raccontare a suo padre le parti imparate nei libri, descrivendole in modo per nulla accademico, sebbene Gus fosse tutto meno che una persona poco sveglia.
Un paio di volte riuscì persino a dargli soluzioni a problemi che non riusciva a risolvere in officina.
Manuel si considerava una sorta di spia per conto di suo padre, un infiltrato che durante la settimana scovava informazioni utili per poi fare rapporto al quartier generale nel week end.
Costretto ad un riposo forzato, si prese il resto della mattinata per camminare tra gli infiniti campi coltivati a granturco. Il sole gli scaldava le spalle e il collo mentre raggiungeva il canale che costeggiava la strada principale, dove potè ripararsi all’ombra degli enormi pioppi.
Quella restava l’unico collegamento col resto del mondo.
Un rettilineo di brecciolino, che faceva levare in cielo una enorme nuvola di polvere bianca ogni volta che qualcuno lo percorreva. Era quasi impossibile non farsi notare a chilometri di distanza. Accanto alla cappella votiva un cartello stradale tutte le direzioni.
Lui e i suoi amici da bambini amavano quella scritta: gli sembrava come una frontiera dalla quale accedere a tutto il possibile. Senza limiti, tranne la voglia di esplorare. Avevano il divieto assoluto di percorrere la strada in bicicletta e questo non faceva che aumentarne l’attrazione.
Sebbene sapessero che dopo un paio di innocui incroci terminava con il paese, si immaginavano storie incredibili che usavano come base per le loro avventure.
Stava rientrando con ancora quei ricordi in mente, quando l’attenzione si posò sui panni stesi nel lato più soleggiato della casa.
Si avvicinò con circospezione, appoggiò la tazza a terra, osservò che non ci fosse nessuno nei paraggi e, d’impulso, come da bambino, si sdraiò pancia all’aria sotto le lenzuola bianche. Osservare quelle vele mosse dal vento che compivano giochi di ombre mai uguali tra loro era uno dei suoi passatempi preferiti.
Ma ormai era cresciuto e faticava a starci sotto.
Per un attimo si dispiacque.
Quando si diventa adulti si riduce tutto: gli oggetti, gli spazi, l’immaginazione, le possibilità.
Riprese la tazza della colazione e rientrò in casa.
Sua mamma era già ai fornelli; una parte della cucina era occupata da decine di tagliatelle appese, pronte per essere servite col ragù.
Faceva la pasta in casa per le occasioni speciali: la presenza di Manuel rientrava tra queste.
Arrivò anche Gus e la famiglia si sedette per pranzare.
Tornò a Bologna per sostenere due esami che non ebbero l’esito che sperava, ma si portò comunque a casa due 26. Ora era tempo di andare in vacanza con un gruppo di amici, prima di rientrare per completare il progetto Panda.
Suo padre fu di parola e non andò avanti senza di lui; nel frattempo i ricambi erano arrivati e in pochi giorni riuscirono a completare la parte meccanica ed elettrica.
In una domenica pomeriggio di fine agosto, contro ogni pronostico, girarono la chiave nel quadro accensione e dopo due colpi ripetuti di tosse, il motore riprese vita.
Ancora sporchi di grasso e olio, festeggiarono seduti a terra godendosi una birra fresca e quel poco di brezza che passava attraverso gli alberi.
Gus pensò quanto gli piacesse la sua vita e che, in generale, se non la sfidi troppo qualche volta sa come ripagarti.
Per fortuna conservò quel ricordo proteggendo ogni piccolo particolare dalla ruggine del tempo. Perché fu l’ultimo momento che passarono assieme.
Il temporale
Il ticchettìo della sveglia sul comodino segnava le 3:43 quando squillò il telefono e le chiamate a notte fonda non portano mai buone notizie.
Gus spalancò gli occhi e corse a rispondere.
«È la famiglia Fabbri?»
«Si, chi parla…»
«Lei è un parente di Manuel Fabbri?»
Il tono della voce cercava di circuire l’agitazione di Augusto.
«Sono il papà».
«Buonasera Sig. Fabbri, sono il Dott. De Marchi, la chiamo dal Policlinico di Bologna, abbiamo ricoverato qualche ora fa suo figlio per arresto cardiaco.»
Augusto non attese la fine della frase avendo già pronta la risposta.
«Prendiamo la macchina e arriviamo subito dottore, mi dica solo come sta».
«Sig. Fabbri, è arrivato in pronto soccorso già in condizioni preoccupanti, lo abbiamo trasportato subito in sala operatoria. Abbiamo provato tutto il possibile ma non siamo riusciti a salvarlo».
«Ma sta bene adesso?»
Un breve silenzio per riordinare le idee.
«Sig. Fabbri, mi dispiace molto, ma Manuel non ce l’ha fatta».
Il dolore di sopravvivere ad un figlio è tra i peggiori e solo chi l’ha provato sulla propria pelle è in grado di descriverlo, se mai volesse farlo. Ecco perché non intendo provarci, nemmeno lontanamente.
Non sappiamo per quanto tempo Augusto restò in piedi, immobile di fronte al telefono, fissando nel vuoto senza capire nulla.
Maria era rimasta appoggiata allo stipite della porta della camera da letto in silenzio per non interferire con quella delicata comunicazione.
Appena avvertì una pausa di troppo e non sentì più la voce all’altro capo del ricevitore, il suo cuore, come un riflesso incondizionato, iniziò a battere al doppio della velocità, ebbe caldo alla faccia, freddo al resto del corpo. Voleva scoppiare a piangere, ma dalla bocca le uscì solo un suono strozzato.
Si mise a sedere a bordo del letto.
Poco dopo, Augusto appoggiò il ricevitore con una calma fuori luogo, come se stesse maneggiando l’oggetto più prezioso al mondo.
Prese posto accanto a sua moglie, la abbracciò e solo allora entrambi ebbero la forza per piangere.
Il Mottarello
Compilò due liste: una con i documenti necessari al funerale e una con le domande da fare a chi lo avrebbe organizzato.
Durante la funzione la piccola chiesa faticava a contenere le persone. Gli amici di Manuel erano moltissimi. Lui e Maria non credevano se ne potessero avere così tanti.
In pochi erano a conoscenza della sua malattia. Per lui non era mai stata invalidante e inserirla durante una conversazione tra le informazioni necessarie, gli era sempre sembrato come darle troppa importanza, sottraendo tempo prezioso a qualsiasi altra cosa. Come una battuta, un sorriso o un semplice silenzio.
In molti lessero alcune parole in ricordo, qualcuno suonò anche delle canzoni. Fu un momento dove le emozioni facevano a pugni: gioia nell’assistere a tutto quell’amore che lasciava spazio a un vuoto incolmabile.
I giorni seguenti, invece, si sbarazzarono della gioia. Rimase la sensazione di aver perso per sempre un pezzo fondamentale per il quale non c’era ricambio.
Sapevano che un disastro del genere non sarebbe stato inevitabile, ma come accade in questi casi, per salvaguardare l’istinto di sopravvivenza si prova ad accantonare l’eventualità negativa più estrema.
Si fecero forza a vicenda alternandosi nel dolore: quando Maria aveva un crollo, Augusto era pronto a soccorrerla e viceversa.
Nonostante il tempo trascorresse, in casa era calato un silenzio di attesa, come se stessero aspettando entrambi di svegliarsi e accorgersi che si trattava solo di un incubo.
Gus cercava di occupare le giornate lavorando e riusciva qualche volta a distrarsi, grazie anche agli amici che a turno lo andavano a trovare in officina preoccupati di non vederlo più in piazza, seduto con loro sulla solita sedia del bar a bere un bianchino dopo aver chiuso bottega.
Per Maria invece la questione era ben più complicata.
A distanza di qualche mese non era ancora riuscita a entrare nella camera di Manuel: aveva lasciato tutto com’era, chiudendo la porta a chiave.
Poco tempo dopo si lasciò alle spalle anche il resto; ebbe una fitta al petto, si sedette sul suo lato preferito del divano a prendere fiato.
Socchiuse gli occhi.
Dicevamo, crepacuore.
Augusto la trovò rientrando per pranzo.
Ciò che ne seguì e i relativi dettagli non verranno presi in esame.
Dopo il funerale, preferì rimanere solo a casa, nonostante gli amici più stretti insistettero per un po’ di compagnia, preoccupati per le sue condizioni, ma nulla da fare.
Camminò lentamente fino alla camera da letto, si sedette sulla punta del materasso e senza spogliarsi si lasciò cadere indietro, immergendosi come un sub in una dimensione ovattata in cui non riuscire a sentire nulla, nemmeno i pensieri.
Si addormentò così.
La birra ghiacciata d’estate
La cassettiera con le maniglie dorate.
L’armadio con l’anta socchiusa dalla quale spunta il lembo di una gonna.
Il comodino con gli occhiali da vista, il blister con due pastiglie, la Settimana Enigmistica ferma su un cruciverba corretto a penna.
Il tavolo rotondo del salotto.
Il centrotavola ricamato.
Il cesto di vimini con la frutta: tre mele, due banane, una pera ancora acerba.
Il copridivano fiorato, il tavolino con la cassetta per il cucito.
La cornice con la foto del matrimonio.
L’ennesima lista per tenere a bada le prime sensazioni del dormiveglia.
Tentò di rimettere assieme i pezzi di una vita andata in frantumi.
I pensieri lo sovrastarono.
Il canto degli uccelli.
Il vento che sposta la tenda del salotto.
La luce che entra dalle imposte socchiuse della camera da letto.
Il rumore in lontananza del frigo.
Un cane che abbaia.
Si riaddormentò aggiornando la lista con elementi sempre più lontani e fuori fuoco.
Quando riaprì gli occhi era buio pesto; l’orologio segnava l’una e venti. Non seppe con precisione per quanto dormì, ma non gli importò.
Non aveva impegni né nessuno che lo stesse aspettando. Raccolte le forze, si sollevò, slacciò le scarpe, scambiò l’abito con vestiti coi quali aveva più confidenza e si spostò sulla poltrona.
Cedette a un bicchiere di whiskey. Poi cedette anche ad un secondo.
Riassunti gli ultimi avvenimenti della sua vita, ebbe un crollo nervoso terminato il quale gli si parò davanti un bivio.
Quante volte ci troviamo ad affrontare scelte di ogni genere e portata; da quale marca di caffè comprare a decidere se continuare a vivere o chiuderla lì. In quel piccolo frammento di notte dovette decidere se proseguire su quella strada, con una fine facilmente immaginabile, o prendere il sentiero più difficile: continuare.
«Maria di queste ne devi bere dieci gocce diluite in mezzo bicchiere d’acqua ogni volta che non riesci a prendere sonno o hai la tachicardia. Ma solo dieci, mi raccomando».
Gli tornò in mente la frase che lo Sciamano disse a sua moglie dopo che Manuel morì e non riusciva più né a mangiare, né a dormire.
Non sapevano cosa ci fosse dentro quella boccetta, ma lo sciamano, all’anagrafe Enzo Iannacone, non si era guadagnato quell’appellativo senza motivo.
Raccontarne la vita richiederebbe un intero romanzo.
Un giorno comparve in paese con un cappello di feltro nero con una piuma di qualche uccello tropicale infilzata nella cupola, un poncho colorato, una piccola valigia e a piedi dei sandali consumati. Quando qualcuno gli chiedeva da dove provenisse e come fosse arrivato fin lì, rispondeva sempre allo stesso modo: «il destino usa molte strade per compiersi».
All’inizio tutti lo credevano un matto, ma col tempo si scoprì che era molto bravo a curare i dolori del corpo e dell’anima usando rimedi naturali, oltre che a sfoderare frasi ad effetto quando non sapeva, o non voleva, rispondere ad una domanda.
Dopo essere riuscito a sistemare una brutta bruciatura che si era fatto il Desiderio Massari, venne ribattezzato lo Sciamano.
Anche Augusto decise di invitarlo a casa dopo avergli raccontato i sintomi di cui soffriva Maria.
«Tale impresa è molto seria. Occorre individuare prima la sorgente di questa inquietudine che arriva al corpo, ma parte da molto più lontano. Dal profondo dell’anima. Dammi tre giorni. Poi ti verrò a trovare con una soluzione».
Gus ringraziò e lo vide uscire da casa senza aggiungere niente. Non anticipò a Maria nulla che non fosse stato indispensabile e, semplicemente, attese. Dopo tre giorni lo Sciamano si presentò con una piccola boccetta di vetro piena di un liquido oleoso di colore verde scuro. Maria non sembrava molto convinta, ma accettò vedendo la fiducia che Augusto riponeva in quell’uomo e al suo rimedio.
Non risolse il problema, ma quando serviva le calmò i pensieri.
Ora si ritrovò a pensare a quella sostanza, chiedendosi cosa gli sarebbe accaduto se l’avesse ingerita tutta.
Aprì il mobiletto accanto al lavandino, afferrò la boccetta, si sedette sulla poltrona, la appoggiò delicatamente sul tavolino e iniziò a fissarla. Pensò a quali sarebbero stati gli effetti: avrebbe sofferto le pene dell’inferno o non avrebbe sentito nulla? Sarebbe stato cosciente? E per quanto tempo? Quando avrebbe perso i sensi?
Per un attimo volle andare a trovare Enzo in cerca di risposte, ma si sarebbe insospettito, quindi rinunciò. Avrebbe potuto chiedergli direttamente qualcosa che facesse effetto rapidamente e senza dolori, ché di quelli ne aveva già conosciuti abbastanza.
Sfinito per le domande e i dubbi andò a letto rimandando la decisione.
Questo copione andò in scena per una settimana, durante la quale riscrisse più volte un elenco delle sue volontà e a chi destinarle.
Aveva inventariato quel poco che aveva. Mancava solo una cosa.
La Panda. Perchè non riusciva a trovarle qualcuno che se la meritasse? Era diventato di colpo l’oggetto più importante della sua vita, che aveva però nascosto con un telo e cercato di dimenticare da quel tragico giorno. Dopo molta incertezza, tornò in officina, lo sollevò ed eccola lì: in mezzo alla nuvola di polvere la sagoma della carrozzeria, pronta per la verniciatura e il giro di collaudo.
Mentre accarezzava la lamiera, si vergognò per i pensieri che aveva avuto in quei giorni.
Nonostante il destino gli avesse strappato di mano ciò che amava di più, dargliela vinta in quel modo sarebbe stato da vigliacchi.
L’onestà, anche quando fa male
«Quando si inizia una cosa, la si porta a termine».
Gli ritornò alla mente questa frase. La ripetè a Manuel fin da che era bambino. Proprio ora non poteva non mantenere la promessa.
Andò in cerca di carta e penna per l’ennesima lista da comporre, quando a lato di un cassetto pieno di vecchie buste e documenti, trovò un piccolo quaderno rosso di cui si era dimenticato.
Sulla copertina era incisa una strana parola, Elencario, dentro una dedica:
Per le tue liste più importanti, Manuel.
Quel taccuino era lì da chissà quando, ma avendolo trovato solo ora, gli sembrò come se qualcuno stesse comunicando ad un uomo che, per natura, non era certo incline ai messaggi dall’aldilà.
Però non si fece domande. Se lo mise in tasca e tornò a casa.
Svuotò nel lavandino la boccetta oleosa di color verde scuro e dato che ormai le regole della razionalità sembravano non far più parte della sua vita, si lasciò andare seguendo l’istinto.
Prese una matita e decise di comporre un’unica, ultima lista.
Si sforzò da quel momento in poi di trovare dieci motivi per cui la sua vita, nonostante tutto, avesse ancora qualcosa da dire. Lasciò tre pagine bianche per ciascun punto. Arrivato a dieci, ogni nuovo motivo che riteneva necessario aggiungere avrebbe dovuto prendere il posto di uno già scritto.
Non doveva essere una classifica, solo una lista, ma di dieci punti, non uno di meno, non uno di più.
Dopo un primo blocco, iniziò con qualcosa di semplice e in pochi giorni fece già due volte il giro del decalogo.
Lentamente si accorse che la rabbia e il dolore iniziavano ad allentarsi; ricordare i momenti più felici gli facevano compagnia aiutandolo ad andare avanti.
Avrebbe letto la lista completa solo una volta e solo dopo avvertita la sensazione di non dover aggiungere più nulla. Trascorsero molti mesi nei quali riprese anche a lavorare.
Quando sentì che il suo elenco era quasi completo, si dedicò finalmente alla promessa fatta a Manuel.
A quella macchina mancava solo di essere verniciata.
Non avevano mai parlato del colore; non ne ebbero avuto il tempo.
La risposta la trovò facilmente sulla copertina di quel taccuino: rosso Gilera 60 1232.
La semplicità
Lavorò ininterrottamente per sistemare gli ultimi dettagli e permettere alla vernice di asciugare, riposando il tempo necessario a recuperare le energie per scrivere un finale degno di questa storia.
Montò in macchina con addosso l’emozione della fuga.
Si gustò il rumore del motore mentre assaporava il profumo di nuovo degli interni.
Il volante aderiva perfettamente alla mano sinistra, mentre la destra aveva già inserito la prima.
Imboccò il rettilineo bianco, passando sotto al cartello tutte le direzioni.
Il finestrino era abbassato e l’aria tiepida risuonava nell’intero abitacolo. Attraversò il paese, incrociando lo sguardo stupito di alcuni amici che non capivano cosa ci facesse su una Panda rosso Gilera e, soprattutto, dove stesse andando.
Proseguì senza incertezze fino alla statale 16. Alla radio un pezzo di Dalla.
Osservò il sole che lentamente si allineava alle piante di grano e si ritrovò a sorridere, come non gli capitava da lungo tempo.
I ricordi a fargli da navigatore per questa avventura.
Dopo aver imboccato per sbaglio qualche incrocio riuscì a trovare la strada giusta. Esattamente a metà della via; di fronte ad uno splendido pino marittimo ancora in perfetta forma la rivide: Pensione Splendor, la stessa del suo viaggio di nozze con Maria.
Aveva cambiato nome ed era completamente diversa da allora, ma l’edificio era rimasto lo stesso. Fuori c’era ancora la rastrelliera per le biciclette e i tavolini per i clienti.
Una coppia di tedeschi stava giocando a carte sorseggiando lui una birra, lei un cappuccino.
Puntò il naso al cielo e socchiuse gli occhi: l’aria aveva lo stesso profumo di quarant’anni fa.
Per un attimo gli parve di scorgere dietro la porta a vetri la vecchia proprietaria. Si scambiarono uno sguardo veloce. Chissà se è lei, pensò Gus.
Nel dubbio si sorrisero.
Proseguì fino al punto preciso dove terminare questa storia: un chiosco con le insegne al neon che illuminavano le altre macchine parcheggiate.
Dalla spiaggia si alzarono i garriti dei gabbiani che volavano bassi mischiati alle voci di alcuni ragazzi pronti a tuffarsi in mare.
Era il momento che attendeva. Quello giusto.
L’immagine è di quelle cinematografiche che chiudono un film.
Una carrellata che si allontana alle spalle del protagonista mentre si gode il tramonto, appoggiato al cofano rosso della sua auto, in compagnia di una birra fresca, della leggera brezza del mare e di un taccuino rosso.
Non sapremo cosa deciderà di fare Augusto col resto della sua vita, né cosa stia pensando in questo momento, ma sappiamo che è pronto a scoprirlo e, soprattutto, che è deciso a leggere quella lista un’unica volta.
- Quando è nato Manuel
- La prima volta che ho visto Maria
- Il rumore del motore di un’auto riparata
- Le tagliatelle al ragù
- Aver vissuto ogni attimo con Manuel
- La vita nonostante i suoi colpi bassi
- Ogni volta che ho pensato di non farcela e poi…
- Avere imparato che la fragilità non è un segno di debolezza
- Aver potuto scegliere la vita che volevo
- Il domani anche se mi fa paura
Racconto tratto da “Il primo passo”.