Roberto Carlos

Immagina un giardino, non troppo grande, non troppo piccolo.
Dentro a questo giardino c’è un bambino, non troppo alto, non troppo basso.
Questo bambino ha una fissa che lo tormenta ogni attimo della giornata, tutti i giorni: il calcio.
Ma non lo sport nella sua totalità, solo una parte specifica.
Questo bambino è fissato col battere le punizioni.
Ma anche qui non come chiunque, niente affatto.
Come Roberto Carlos da Silva.
Rimase imbambolato quando lo vide tirare la punizione contro la Francia nei Mondiali del 1997: il pallone che schizza via diritto e improvvisamente cambia traiettoria come se avesse carambolato contro una parete invisibile, accarezzando il palo ed entrando in rete.
Da quel giorno provò a ripetere il gesto in giardino.
Ogni giorno, tutto il giorno.
Suo padre che non ne poteva più di trovare l’orto rovinato gli alberi con rami spezzati, oltre al rumore di pallonate contro ai muri della casa e un paio di vetri rotti ma che non se la sentiva di impedirglielo, progettò un attrezzo diabolico.
Piantò nel terreno un palo di legno sufficientemente alto e robusto, gli fissò attorno un anello al quale annodò un capo di una fune robusta e dall’altro un pallone.
In questo modo suo figlio poteva sfogarsi e ripetere il gesto all’infinito senza distruggere nulla e senza dover recuperare la palla in strada ogni cinque minuti.

Ora prova a immaginarlo, ogni pomeriggio, mentre si prepara di tutto punto con la divisa da gara composta da una maglietta gialla, un paio di pantaloncini azzurri e i suoi scarpini da calcio neri preferiti.
Immaginalo mentre esce da camera sua come fosse l’ultimo della squadra ad abbandonare gli spogliatoi, attraversare la cucina, il salotto, come fossero i corridoi che scorrono sotto lo stadio.
Immaginalo mentre prendono forma nella sua testa i cori dei tifosi, oltre ai miliardi di occhi che da ogni parte del mondo in quel momento sono davanti ad uno schermo.
Immagina la sensazione che si prova in casi come questo.

E così, dopo aver ripetuto quasi all’infinito quei gesti, come un rito propiziatorio, anche quel pomeriggio sistemò con cura il pallone a terra, non gli staccò gli occhi di dosso mentre indietreggiava nella lunga rincorsa, fece un lungo respiro, partì ricalcando esattamente i movimenti di Roberto Carlos colpendo di sinistro come aveva fatto altre dieci, cento, mille volte prima.
Ma questa volta, a differenza delle precedenti, il pallone non schizzò via senza controllo, partì dritto per poi assumere un effetto stranissimo, come rimbalzando contro una parete invisibile.
Ce l’aveva fatta.
Immagina l’incredulità nei suoi occhi dopo aver realizzato.
Immagina l’adrenalina mista all’emozione nell’essere riuscito a fare qualcosa che credeva impossibile, forse quasi inspiegabile.
Immagina il brivido, la soddisfazione e la consapevolezza di poter arrivare ovunque.
Sei riuscito ad immaginarlo?

Ecco, è in quell’esatto momento in cui voglio vivere.

Riccardo Fano