La verità della storia è nei dettagli.
Paul Auster
Arturo Bandini ha sempre temuto l’intromissione di estranei nella sua vita.
Lasciandoli fuori non avrebbe corso rischi, mantenendo inalterato il controllo totale del suo quotidiano misurabile in tempo, attività ed emozioni.
Da piccolo veniva considerato particolare.
Non strano perché non aveva nessun comportamento eccessivamente diverso dai suoi coetanei. Più semplicemente iniziò a sviluppare una indipendenza che lo portò a stare fuori dal gruppo di un solo passo, quasi impercettibile.
Sia chiaro, era un bambino che sapeva entrare in relazione con gli altri, ma dopo aver definito i primi approcci con i compagni, con naturalezza, si metteva leggermente in disparte e osservava divertito ciò che accadeva.
Amava moltissimo quando suo padre lo portava in visita al museo di storia naturale: rimaneva affascinato nel constatare come dietro a una lastra di vetro potesse rivivere un microcosmo, un’istantanea popolata da animali imbalsamati.
E che ogni scena convivesse con quelle ai lati, nonostante non avessero alcun collegamento diretto, tranne il mondo animale. La diretta conseguenza di tale passione, una volta cresciuto, divennero i grandi centri commerciali.
Decine di negozi, tutti diversi e tutti perfettamente attaccati l’uno all’altro; era possibile in pochi secondi entrare a fare parte di piccoli mondi completi e indipendenti semplicemente varcandone la soglia.
Scoprì che qualcuno aveva studiato quel fenomeno tanto da definirli non luoghi.
Ad Arturo piaceva quel termine. Gli piaceva moltissimo.
Tra le sue passioni, c’è senz’altro quella per la lettura e, contemporaneamente, l’osservazione dell’essere umano.
Più che una passione si potrebbe definire quasi un naturale prolungamento del suo carattere.
Sia chiaro, non teme l’altro e anzi, è sempre ben contento quando qualcuno per strada gli chiede un’informazione generica – tipo l’ora – o logistica – tipo se sa dove si trovi una certa via – ma la confidenza rimane circoscritta in quello spazio.
Osservare ciò che accade fuori ha trovato la massima espressione nella sua professione.
Sei anni prima, scelse il lavoro notturno di casellante che gli permise di sfruttare al meglio l’insonnia cronica che lo accompagnava da tutta una vita.
Una volta raggiunta l’indipendenza economica, decise di lasciare la casa di famiglia e con lei i genitori e la sorella Elisabetta, di due anni più giovane.
Si trasferì in una delle villette a schiera di ultima generazione costruite da pochi anni, di quelle con il posto auto, un piccolo giardino sul fronte, uno più spazioso sul retro e due piani molto ampi. Il luogo perfetto per mettere su famiglia e acquistare un bel Golden Retriever, proprio come nelle immagini pubblicitarie affisse all’entrata dell’ufficio vendite.
Arturo invece approfittò della possibilità di effettuare delle modifiche in fase di costruzione intervenendo sulla piantina, facendo allargare lo spazio destinato al salotto e all’unica camera da letto, la sua.
Alle ore venti precise, per cinque sere a settimana inizia il suo turno al casello incastrato appena dopo l’uscita di un ramo dell’autostrada.
Per chiunque passi velocemente da lì è lui la persona chiusa dietro un vetro e dentro una scatola di acciaio.
Per Arturo è esattamente l’opposto.
Da anni vede transitare molte automobili, più di quante uno si possa immaginare a quell’ora e in quel tratto, ma meno di quante ce ne sarebbero se fosse giorno e per ognuna gli piace soffermarsi, sebbene per poco, sui dettagli dell’abitacolo: chi guida il mezzo, che abiti indossa, cosa tiene appoggiato sul cruscotto.
Tra le facce che incrocia quotidianamente, poche lo guardano in volto, molte compiono gesti automatici e collaudati mentre l’attenzione è rivolta ad altre faccende, passate, presenti o future.
Restò però colpito da una donna alla guida di un’auto nera e non tanto per il fascino che emanava, quanto invece dal fatto che passava di lì quasi sempre alla stessa ora, quasi sempre ad inizio mese e aveva i capelli raccolti da foulard molto colorati, indipendentemente dalla stagione e dal meteo.
Arturo non era solito dare confidenze e non lo fece nemmeno con lei.
Ma su quella donna fece delle fantasie.
Era mercoledì. Se lo ricordava bene perché all’ultimo anno di liceo al mercoledì le due ore finali di lezione erano destinate a educazione fisica. Faceva abbastanza caldo e l’intera classe si spostò nel giardino.
Ci fu immediatamente quella netta divisione tra maschi e femmine: i primi si organizzarono per una partita di calcio, le seconde subirono una ulteriore scissione tra chi imbastì una partita di pallavolo e chi si riunì nel prato per rilassarsi e chiacchierare.
Arturo giocò per un po’ e se Bellini non fosse stato tanto reattivo tra i pali avrebbe pure segnato. Poi, come al solito, chiese il cambio, si mise a sedere in terra e scrutò come un attento antropologo i movimenti e i rituali dei suoi compagni di classe che erano ormai abituati e non ci facevano più caso.
Osservare qualcuno quando questo sa di essere osservato e non si preoccupa è un lusso che gli piaceva molto, lo faceva chiaramente con interesse e senza malizia, ma quando ad essere osservato sei tu, le cose cambiano.
Per la prima volta sperimentò il senso dell’espressione avere gli occhi addosso.
Sentì una strana sensazione, si voltò prima a destra, poi a sinistra, senza notare nessuno.
Poi indirizzò lo sguardo in avanti, oltre la partita e vide Agnese seduta sui gradini mentre fumava una sigaretta. Non l’aveva notata. In effetti era una ragazza molto brava a mimetizzarsi. E doveva essere senz’altro così perché quasi non ricordava nemmeno facesse parte della classe.
Ciò che per molti suoi compagni poteva essere un comportamento strano, per lui era un talento incredibile. Provò dell’invidia.
Ci si innamora nei modi più singolari e di persone che non avremmo nemmeno pensato esistessero; un secondo prima non ci sono e un secondo dopo appaiono improvvisamente nella nostra vita e la sconvolgono.
Arturo si innamorò di Agnese quel giorno, perché fu lei a decidere quando mostrarsi, ma lui questo non lo sapeva.
Senza fare rumore, quando il tempo fu maturo arrivò e come un tornado domestico rimase il tempo necessario per mettere a soqquadro tutte le sue emozioni, lasciandolo con la sensazione di avere perso cose prima sconosciute e ora diventate indispensabili.
Non seppe mai perché scelse proprio lui tra mille altre persone; gli rimase però il sospetto che non fosse il primo né l’ultimo.
Agnese era una ragazza che in compagnia si definirebbe senza nulla di particolare, ma che sapeva toccare i tasti giusti al momento appropriato, che ovviamente accadeva quando era lei a volerlo.
Decise quando apparire nella vita di Arturo, quando sconvolgere i suoi sentimenti, quando farlo innamorare di lei e quando prendere le distanze.
Lui, come molti rappresentanti della categoria maschi, era sprovvisto delle attrezzature emotive adatte a questo genere di arrampicata e, come fu prevedibile, cadde senza nessuna rete di salvataggio.
Fecero l’amore in un pomeriggio assolato a casa di amici, appena dopo la prima prova scritta dell’esame di maturità.
La compagnia era in salotto a guardare la televisione, scherzando e pensando che ce l’avevano quasi fatta a conquistare il diploma e il viaggio come premio per l’impresa.
Agnese lo prese per mano e insieme sparirono in camera da letto senza la minima traccia, come solo loro sapevano fare.
Per Arturo fu la prima volta e fu indimenticabile, anche se ricorda solo molta agitazione, una totale assenza di controllo sia della situazione che del suo corpo, un groviglio di mani, gambe, il profumo dolciastro di Agnese e un senso di piacere breve, troppo breve, ma intenso.
Da come lei si muoveva gli era sembrato non fosse anche la sua prima volta, ma non ebbe il coraggio di chiedere; in realtà dopo non riuscì a chiederle niente, rimase abbracciato a lei imbambolato, a fissare alla parete con un sorriso da ebete il poster di un cantante che non conosceva, in una camera non sua, sdraiato su un letto troppo piccolo per entrambi.
Come da abitudine a fine turno, prima di salire in auto per rientrare a casa, ha l’abitudine di prendere un caffè al bar della piccola piazzola di sosta, fare quattro chiacchiere con Mara e Tullio, i gestori, Peppe, il benzinaio e Lucio detto manubrio per via della forma dei baffi, suo collega casellante.
La qualità della strada che ogni sera deve percorrere non è tra le migliori; ogni anno dopo le prime gelate notturne, nuove buche e crepe compaiono sull’asfalto e in molti punti non c’è nessuna illuminazione artificiale, perciò preferiva sgranchirsi qualche minuto all’aria aperta quasi rinvenendo dopo ore di torpore, mentre l’abitacolo si scaldava.
Il tragitto si svolgeva in pratica lungo un rettilineo srotolato tra campi a perdita d’occhio, ora completamente ghiacciati dai venti freddi che frustavano il terreno; solo in tre punti la strada curvava, non per gentilezza, ma per l’irrimediabile presenza di alcune cascine.
Poco prima del secondo piccolo tornante, vide giungere da lontano una coppia di fari che aumentavano velocemente di dimensione; rallentò e decise di spostarsi di qualche metro a destra, per paura di non essere visto.
Fu non appena l’auto si spostò al centro della carreggiata per sorpassarlo che vide la seconda coppia di fari.
Non fece in tempo a realizzare il motivo di tale inseguimento quando quest’ultima speronò la prima facendola scodare fino a perdere il controllo, uscire di strada e terminare la sua corsa in mezzo ai campi dopo una strillante frenata che non servì a molto.
Preso dal panico inchiodò anche lui l’auto e rimase immobile per qualche secondo.
La seconda auto, di grossa cilindrata, fece retromarcia fino al punto dell’incidente, dalla parte del passeggero scese un uomo grosso, con un cappotto e una coppola di lana che si avvicinò all’auto uscita di strada. Poi, forse consapevole della presenza di un testimone, si fermò per un breve attimo, si voltò verso i fari che lo puntavano, ma decise di risalire in auto e l’uomo alla guida ripartì lasciando una buona parte di pneumatici sull’asfalto.
L’intera scena venne rivissuta nella mente di Arturo come se l’avesse vista al cinema, ma con un audio di incredibile potenza. Quando realizzò che non era finzione, prese coraggio, ingranò la prima e si avvicinò il più possibile al bordo della strada per illuminare la scena con i fari.
Raggiunse l’auto percorrendo un breve tratto di prato in discesa e, per il gelo, molto scivoloso, aprì la portiera dal lato del passeggero e vide alla guida un corpo che si muoveva a fatica. Solo quando si trovò dall’altro lato riconobbe la donna del foulard.
L’impatto deve averglielo fatto cadere da qualche parte e per lui con i capelli sciolti quel viso era completamente nuovo.
Con attenzione la fece uscire dall’abitacolo, aiutandola a risalire in strada e poi fino alla sua auto. Si tranquillizzò nel notare che a parte lo spavento e qualche graffio stesse bene.
Tornò a prenderle la borsa, gliela appoggiò accanto e le disse che l’avrebbe portata di corsa al pronto soccorso.
La borsa…
Signorina è qui la borsa, gliel’ho appoggiata accanto.
No, quella dietro.
Per un momento pensò fosse confusa, ma quando tornò a controllare, dietro i sedili scovò un borsone in pelle marrone con i manici, di quelli che usavano i suoi genitori quando, da piccolo, andavano via per qualche giorno.
Lo afferrò velocemente, lo mise in macchina e partì.
Dove stiamo andando?
Al pronto soccorso signorina non si preoccupi non è distante.
No, non lì… mi porti in un posto sicuro.
Ma signorina è stato un brutto incidente, deve farsi visitare da un dottore, potrebbe essere pericoloso. Siamo quasi arrivati.
No, non è sicuro. Sapranno già che andrò lì. Mi staranno aspettando.
Arturo era convinto fino a quel momento che il pronto soccorso fosse il luogo più sicuro, ma, ragionando, non ne era più tanto certo.
Decise allora in una alternativa. Una cosa che non avrebbe mai pensato di fare.
Come il primo tuffo.
Come il primo bacio.
Come ciò che non vuoi ma sai che devi, perché è giusto così.
Decise di portarla a casa sua.
La sostenne a fatica, accompagnandola lentamente accanto alla libreria all’ingresso del salotto. Si accertò che fosse in grado di reggersi in autonomia e solo allora la lasciò, si diresse immediatamente verso il divano, spostò sulla poltrona di fronte l’alta pila di libri e quotidiani che occupava la metà mai utilizzata, tornò a riprenderla e la aiutò dolcemente a sdraiarsi.
Si diresse velocemente in camera da letto, recuperò dall’armadio una spessa coperta di lana, infilò un cuscino in una federa pulita e ritornò nuovamente dalla donna.
Lei adesso rimanga qui, torno subito.
Scese in strada e per sicurezza, parcheggiò l’auto al di qua del cancello, prese le due borse e rientrò a casa per medicarla.
Avrebbe qualcosa di forte da bere. Un whiskey magari…
Mi spiace, ma non sono un gran bevitore. Dovrei avere della grappa o una bottiglia di amaro.
E cosa offre ai suoi ospiti.
Di solito non ricevo ospiti. E comunque non whiskey, aggiunse sorridendo
Lei ricambiò il sorriso, una grappa andrà benissimo, grazie.
Aprì l’anta della vetrinetta, fece comparire un bicchierino e una bottiglia che aveva l’aria di essere stata aperta per caso e mai più toccata per molto tempo, ne versò un po’ del contenuto e glielo porse.
In quell’esatto momento sentì il bisogno di rifare la stessa operazione per se stesso, spostò nuovamente la pila di libri e quotidiani dalla poltrona a terra e si sedette.
Aveva molte domande da fare a quella donna che era entrata all’improvviso nella sua vita immergendosi ad una profondità inaccessibile a chiunque altro.
Di storie sentimentali – come le definiva sua madre – ne ebbe, ma tutte terminate quando la questione si faceva per lui troppo personale. I suoi genitori per un lungo periodo – probabilmente non ancora terminato – erano convinti che avesse altri gusti non avendo mai visto ragazze per casa, ma la sua vita era a misura d’uno; amici e donne erano molto importanti ma facevano parte della cornice, lui era il quadro.
Per fortuna sua sorella era l’esatto opposto come carattere e la voglia di mettere su famiglia e regalare un nipote ai genitori spostarono le loro attenzioni sul bambino e la loro attività di nonni.
La ringrazio molto ora sto un po’ meglio.
Bene, sono contento. Adesso però si riposi, non si preoccupi di nulla. Vedrà che domani andrà meglio.
Se avesse bisogno di qualsiasi cosa, mi chiami, io sono in quella stanza in fondo.
Grazie.
Allora buona notte.
Buona notte.
Sdraiato sul suo letto, continuava a fissare il soffitto ripensando all’accaduto e le tre grappe non avevano avuto l’effetto desiderato.
Lasciò trascorrere un ragionevole lasso di tempo dopodiché ripassò in punta di piedi dal salotto a controllare l’ospite che sembrava riposare. La osservò in silenzio per qualche attimo, per poi ritornare in camera sua e, finalmente, riuscire ad addormentarsi.
Un’immenso salone con una scala al centro.
Osserva quello spazio, illuminato da grandi finestre, troppo alte per essere aperte. Avanza lentamente sentendo il rumore dei suoi passi sul pavimento di marmo con decori floreali a mosaico fare da eco alla sua solitudine.
Non c’è nessuno e non sa perché si trovi in quel luogo che però non gli è completamente estraneo. Quando vede l’insegna biglietteria realizza: il Museo di storia naturale dove andava da bambino con suo padre.
Sembra tutto così grande rispetto a lui, quasi fosse fuori scala. Quando una vetrata gli restituisce l’immagine, realizza il motivo: è lui da bambino. I vestiti, le scarpe da tennis azzurre che gli avevano regalato al compleanno, i pantaloncini corti, la maglietta a righe blu.
Entra in un lunghissimo corridoio fatto di pareti di vetro. Stanze abitate da qualcuno che preferisce rimanere al buio.
All’improvviso, in fondo, la sua attenzione si pone su l’unica luce proveniente da una di esse.
Cerca di raggiungerla correndo, ma ha le gambe pesanti e tutto attorno a lui scorre al rallentatore.
Finalmente la raggiunge. La scena dietro al vetro è composta da vegetazione che sa essere finta: un piccolo ruscello di resina, alcune piante, due alberi che dovrebbero fare ombra a una carcassa di antilope imbalsamata che giace a terra, dilaniata da qualche feroce predatore. Sul fondo della parete è stato dipinto in maniera troppo approssimativa un cielo azzurro con alcune nuvole bianche che ne peggiorano la resa.
E pensare che quando era davvero bambino tutto gli sembrava così perfetto. Ora si avvicinava più a una presa in giro. Capisce però che in quella scena manca qualcosa. Manca qualcuno.
Si avvicina al vetro per osservare meglio, ma appena appoggia le mani sulla superficie, trova un vuoto che gli fa perdere l’equilibrio e lo fa cadere all’interno della piccola stanza.
Avverte alcuni rumori provenire dalla vegetazione, si spaventa e tenta di risalire, ma non riesce, è bloccato e più si dimena più resta immobile. Non ha il tempo di voltarsi verso quei rumori che tra gli arbusti spunta un animale che lo aggredisce.
Si svegliò in preda al panico, realizzando fosse un terribile incubo, di quelli profondi, da sembrare veri al punto di confonderti per qualche secondo.
Una volta calmato, si concentrò su alcuni rumori provenienti dalla casa, dimenticando ci fosse qualcun altro oltre lui.
Rimise in sesto in pensieri e credette imbarazzante presentarsi in pigiama, quindi scivolò verso il bagno, tornò in camera da letto, si vestì e, finalmente, raggiunse la cucina e vide il tavolo apparecchiato per la colazione.
Buongiorno.
Buongiorno. Ho preparato la colazione con ciò che sono riuscita a trovare. Non ha molto in casa.
Grazie mille, è che di solito non faccio colazione, bevo giusto un caffè, ma effettivamente dovrei andare a fare un po’ di spesa.
Lei come sta?
Diamoci del tu, ti va?
Certamente.
Si avvicinò timidamente al tavolo, afferrò con attenzione la tazzina e sorseggiò il caffè osservandolo come se il liquido potesse scappare da un momento all’altro.
Come sta oggi? Scusa…come stai?
Sto molto meglio, grazie, qualche fastidio un po’ ovunque, ma decisamente meglio di ieri sera. Il tuo divano è molto comodo.
Sei la prima persona che me lo dice in effetti, io di solito ne uso solo metà quando leggo il giornale e i libri. Non ci ho mai dormito, ma quando l’ho acquistato il venditore mi disse che era molto comodo.
Lo è infatti, dovresti tornare a dirgli che aveva ragione.
Vero…dovrei farlo, sorrise imbarazzato al centro della stanza di una casa che paradossalmente lo faceva sentire ospite.
Molto bene, allora io andrei a fare la spesa.
D’accordo, ci vediamo più tardi.
Afferrò le chiavi di casa, quelle della macchina e si richiuse la porta alle spalle.
Per precauzione questa volta decise di cambiare itinerario e supermercato: le abitudini non vanno mai d’accordo in situazioni di questo tipo.
Decise di raggiungere uno dei centri commerciali alternativi, dove si recava solitamente quando il tempo libero era abbondante.
Dopo quella notte, ogni movimento e ogni faccia aveva assunto un significato differente: si muoveva circospetto, sfoderando il goffo tentativo di apparire a proprio agio, come chi cammina con indifferenza indossando delle scarpe troppo strette.
Raggiunto l’enorme supermercato fu indeciso su cosa acquistare, non avendo mai dovuto provvedere a qualcuno oltre se stesso.
Non le ho nemmeno chiesto se preferiva qualcosa di specifico pensò tra sè e si sentì un maleducato. Optò per dei generi alimentari che considerava neutri: pasta, un po’ di frutta e verdura generica, qualche scatoletta di tonno, una buona bottiglia di vino rosso, una di bianco e, naturalmente, del whiskey.
Dopo pranzo decise di farle delle domande più precise.
Posso chiederti chi erano quelle persone l’altra notte? Cosa volevano da te?
È una storia molto lunga, ci vorrebbe davvero tanto tempo per raccontarla tutta e, a dire il vero, forse sarebbe meglio che tu non la sentissi; sei già stato coinvolto anche troppo in questa faccenda.
Ma come farai a recuperare la macchina? Ti chiamerà qualcuno per andarla a ritirare…
Per quello non c’è problema, non era la mia. Ti chiederei solamente di poter rimanere qui ancora per un paio di giorni, per sicurezza, non appena sarò in grado di muovermi meglio me ne andrò.
Non c’è nessun problema, davvero, prenditi il tempo necessario.
Posso fare una telefonata?
Si, nessun problema. Ho un cellulare. La linea fissa l’ho fatta disattivare tempo fa.
Chiamavano solo venditori di qualunque cosa, call-center di ogni genere e gente che sbagliava numero.
Alla fine mi sono deciso a tenere solo il cellulare. Tanto non ho molte persone a cui telefonare e mi piace l’idea di essere raggiungibile solo quando lo decido io.
La donna sembrava condividere questa sua affermazione e gli sorrise.
Arturo non seppe perché ma sentì di arrossire.
Aprì un cassetto del mobile in salotto dal quale estrasse il telefonino, lo accese e glielo porse. La donna si allontanò in un’altra stanza alla ricerca di un po’ di privacy. Lui sentì la sua voce senza però capirne il discorso.
Dopo pochi minuti ritornò.
Ecco, grazie mille.
Di nulla, figurati.
Quella sera, come tutte le altre, cercò di ripetere una routine che ormai non si poteva più chiamare in quel modo.
Ripensò alle ultime ore, al mistero a cui tentava senza successo di dare forma e significato.
Sapeva solo che l’averle lasciato il cellulare e il numero del telefono diretto del casello lo tranquillizzava.
Ripercorse al contrario la strada dell’incidente, rallentando una volta giunto al punto esatto in cui l’auto uscì di strada. Non vide la vettura e pensò che, evidentemente, il soccorso stradale l’avesse rimossa.
Per tutto il turno ebbe la mente rivolta a casa sua e il pensiero a quella donna, a ciò che poteva capitarle e, in parte, anche a ciò che sarebbe potuto capitare a lui.
Perfino il suo amico Manubrio, solitamente distratto, notò che quella sera era particolarmente distante.
La verità era che la sua vita funzionava solo in un modo. Era perfetta com’era, su misura per uno; senza difetti, senza rischi. Dopo anni di lavoro era riuscito a costruire qualcosa di completo e non gli interessava il giudizio altrui; aveva visto il male che poteva recare e decise che la sua vita sarebbe stata a sua immagine e somiglianza, smussando il meno possibile gli eventuali spigoli e vivendola, per quanto possibile, in armonia con tutti.
Ora però si sentiva come davanti a un bivio.
Il pensiero lo agitava perché avvertiva lo scricchiolìo dell’intera costruzione e non era più sicuro di nulla. Nel suo corpo si era insinuato il morbo del dubbio e per non soccombere doveva decidere se assecondarlo o reprimerlo.
Con questo pensiero chiuse la porta dell’ufficio, saltando il caffè e dirigendosi direttamente all’auto.
Tra la coltre di nebbia notò in lontananza un particolare che prima non c’era.
A causa della penombra ebbe difficoltà a capire cosa fosse.
Una volta raggiunta una distanza sufficiente si bloccò come in un fermo immagine, mise a fuoco in direzione dello specchietto retrovisore. Credette fosse frutto della sua immaginazione. Si avvicinò lentamente come se quella cosa potesse aggredirlo da un momento all’altro, poi decise di afferrarlo e domandarsi cosa ci facesse lì un foulard colorato.
Si guardò attorno come se sentisse degli occhi addosso, si convinse per qualche secondo che fosse opera di uno dei suoi amici rimasti nel bar.
Gente con cui aveva trascorso anni e che ora stava tramando alle sue spalle.
Come potevano essere coinvolti anche loro? Perché? Salì velocemente in auto per rientrare a casa, cambiando molte volte il percorso, anche se a quell’ora sembrava l’unico abitante del pianeta terra.
La lasciò parcheggiata fuori dal cancello, salì velocemente i pochi gradini che lo separavano dall’ingresso, ma il presentimento si frantumò in mille pezzi quando richiuse la porta alle spalle e la vide, serenamente addormentata sul divano.
Raggiunse la cucina in cerca di qualcosa da bere per riprendersi dallo spavento.
Sul frigo un post-it: Buonanotte.
Era ormai rassegnato all’idea che anche quella notte sarebbe stata insonne, perciò decise di indagare maggiormente, prestando attenzione all’unica cosa su cui non aveva mai riflettuto.
Con la massima discrezione possibile si diresse verso il borsone appoggiato a fianco del divano, consapevole che all’interno avrebbe potuto trovare alcune risposte.
Lo portò in camera da letto per scavarne il contenuto.
Aprì la cerniera lampo che lentamente mostrò alcuni vestiti femminili.
Rovistando sul fondo vide delle mazzette di soldi tenute assieme da fascette di carta, un’agenda di pelle e una pistola.
Lasciò immediatamente cadere la borsa sul letto come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Chi era veramente quella donna? Era realmente in pericolo o era lei stessa il pericolo?
Girò per la stanza con lo sguardo puntato a terra come chi ha perso qualcosa di importante, poi tornò verso il borsone, prese in mano l’agenda, e la aprì: all’interno una lista di nomi e cognomi, alcuni dei quali molto conosciuti, con a fianco delle cifre appuntate in rosso. Sembravano numeri di conti corrente e importi di denaro.
La calligrafia era ordinata, ogni informazione segnata a mano in modo preciso, così da non sollevare dubbi.
Conoscendo un poco meglio la sua ospite accidentale, Arturo intuì che quell’agenda e quella calligrafia non potevano appartenere a lei e nemmeno a una donna.
Rimise tutto a posto rimandando i pensieri a quando il sole sarebbe tornato.
Al momento della colazione non sapeva come affrontare l’argomento, ma era certo fosse ormai necessario, ma ci pensò lei a rompere l’attesa.
C’è qualcosa che non va?
Scusa? Ero sovrappensiero.
L’ho notato, c’è qualcosa che non va?
Pensò che il modo migliore per iniziare il chiarimento fosse disporre tutte le carte sul tavolo. Si alzò senza dire nulla e tornò dalla camera da letto con in mano il foulard.
Dove l’hai trovato?
Ieri sera, finito di lavorare, stavo rientrando al parcheggio quando l’ho visto legato allo specchietto dell’auto. È evidente che qualcuno sa chi sono e soprattutto sa che sei qui e che ormai non sei più al sicuro.
Una verità non completa, in quanto nella questione sicurezza ci si era messo anche lui, solo che gli sembrò poco educato nominarsi, ma era terrorizzato.
Hai ragione…
Non è tutto. Già che ci siamo vorrei dirti che ieri notte non ho potuto non guardare dentro il borsone che tieni a fianco al divano.
È per l’agenda che ti cercano?
Si stupisce di non aver menzionato prima il denaro e soprattutto la pistola.
In parte sì. Sono dovuta scappare da una situazione che era diventata insopportabile.
Ho scoperto da tempo che mio marito gestisce una parte dei suoi affari in modo ben poco chiaro. A me non è mai interessato molto, perché non ci parliamo tanto da quando ha cacciato di casa mio figlio.
Come ha cacciato di casa?
Sì…dopo che finalmente aveva trovato il coraggio di fare coming out. Io l’ho sempre sospettato e per me era stata una liberazione quasi quanto lui.
Per mio marito invece fu come avergli confessato un omicidio. Forse per lui sarebbe stato persino meglio. Ha reagito come mai avrei pensato. Lo ha cacciato di casa dicendogli che per lui era morto e di non farsi più vedere, minacciandolo.
Dopo qualche settimana sono riuscita a sapere dove si trovasse. Era andato a stare per un po’ a casa di un amico che mi ha telefonato, così non appena mio marito usciva per lavoro – almeno, ha sempre pensato che me la bevessi questa scusa del lavoro – io prendevo una macchina in prestito e raggiungevo mio figlio.
Stavamo un po’ insieme, parlavamo per ore. Poi, prima che facesse mattino, rientravo a casa. A mio marito non interessava cosa facessi e con chi trascorressi le mie giornate.
Ha sempre pensato che le ville, il denaro e l’alta società bastassero a farmi felice.
Un pomeriggio per puro caso ascoltai una conversazione nella quale accennava a quell’agenda e al suo contenuto, così dopo una delle ultime sfuriate settimanali, decisi di vendicarmi: raggiunsi il suo ufficio, aprii la cassaforte, presi tutto ciò che conteneva e me ne andai.
Credo però che mi tenesse sotto controllo, perché dopo poco che partii vidi un’auto che mi seguiva. Fu la notte dell’incidente.
Quindi gli uomini che la fecero uscire di strada li mandò suo marito!
Ovviamente. Ha sempre avuto questi metodi. Lui ordina e gli altri eseguono, non ammette nessuna ribellione. Pensava di spaventarmi, ma non ho paura di lui, mai avuta. Ho pena per ciò che è diventato, questo si, ma non paura.
Lui sa perfettamente come torturare mentalmente le persone fino a convincerle, ma non è capace ad andare oltre, altrimenti non sarei viva, questo è sicuro.
È molto probabile che abbiano capito chi sei e ti hanno lasciato un avvertimento.
Se preferisci me ne vado anche subito, hai fatto anche troppo per me.
Mi dispiace, per tutta questa storia. Davvero.
Anche a me. Ero molto giovane quando l’ho conosciuto. Inesperta e innamorata.
Lo conobbi a una festa, mi fece ridere, mi venne a prendere con un’auto sportiva. Cene lussuose, vacanze in barca. È bastato poco per accorgermi di chi fosse veramente. Pensavo di vivere una favola, che sarei stata felice per sempre e che se anche il tipo di felicità che intendevo io non l’avessi ancora raggiunto, col tempo potesse arrivare.
Io penso che la felicità vada coltivata, giorno dopo giorno. È un lavoro duro e lungo, ma che alla fine ripaga.
Lo credevo anche io e ci ho messo tutto l’impegno del mondo. Invece ho capito, dopo tutti questi anni, che la felicità è solo un talento.
Arturo ritornò a quei giorni che gli sconvolsero la vita e decise che quella sera non poteva andare a lavorare. Si diede malato per la prima volta nella sua vita.
Prepararono assieme la cena, anche se nessuno dei due se la cavasse tra i fornelli.
Stapparono una delle bottiglie di vino rimaste e cercarono per quanto possibile di trascorrere una serata normale.
Ora sai molte cose di me, cose che molte persone nemmeno immaginano, ma io non so nulla di te.
Non c’è molto da sapere, non ho una vita movimentata. La cosa più avventurosa che ho vissuto sono stati questi giorni.
Beh, ma chi sei?
Mi chiamo Arturo, Arturo Bandini per la precisione. Diploma al classico e come avrai potuto notare amo la lettura. Non ho nessun talento per la cucina – e anche questo lo hai potuto sperimentare su te stessa – ho una sorella più piccola, due genitori che mi vogliono bene e che mi volevano avvocato o letterato, ma io ho preferito seguire un’altra strada. Per molti non sarà invidiabile, né ambiziosa e probabilmente nessuno verrà a intervistarmi come genio della finanza o per meriti che ti fanno finire in un quotidiano o in qualche rivista di settore, ma a me piace la mia vita. Non conosco molte persone che possano dire la stessa cosa. Ci ho messo anni per costruirla, pezzo dopo pezzo, e mi è costato molto, lo ammetto.
All’inizio mi giustificavo con tutti, mi sentivo in colpa soprattutto con la mia famiglia perché avevo la sensazione di averli delusi, di non essere ciò che speravano, di rappresentare ai loro occhi una persona che si era arresa, che aveva mollato.
A cosa poi avesse rinunciato non lo avevo capito, ma era una brutta sensazione.
Il tempo invece guarisce davvero tutto, occorre essere pazienti e costanti, ma alla fine quasi sempre ripaga degli sforzi. Ora posso dire di essere soddisfatto di quel poco che ho, che però a me basta; può non essere comprensibile, ma per me va bene così, non ho rimpianti.
È difficile trovare un equilibrio, davvero. È forse una delle cose più complicate che esistano.
Si spostarono in salotto, mentre l’atmosfera iniziava a tingersi di una complicità con cui entrambi avevano poca confidenza, ma che sembrava naturale.
Arturo si avvicinò al giradischi e fece girare un vinile già sul piatto.
Questo è il mio disco preferito. Di solito lo ascolto quando mi rilasso e quando sono di ottimo umore, mi fa prolungare l’effetto positivo.
Quindi questo è uno di quei momenti?
Credo proprio di si.
I due si guardarono in silenzio per un breve attimo, rotto solo dalla consapevolezza del momento di lui, come se si fosse visto da fuori e si fosse imbarazzato.
Ho una sorpresa.
Sparì dietro il muro della cucina e tornò qualche secondo dopo con due bicchieri, la bottiglia di whiskey e del ghiaccio.
Taa daaan!
Lei rise compiaciuta: ora si che si ragiona!
Versò due bicchieri, si sedettero sul divano e rimasero in silenzio sorseggiando il drink con gli occhi leggermente socchiusi mentre si godevano quel momento di pace, lontano da tutti i pensieri, muovendo leggermente le teste seguendo il ritmo della musica fino ad addormentarsi.
Arturo desiderò che quella sensazione durasse per sempre.
Aprì gli occhi con difficoltà e ci mise qualche secondo a realizzare che si trovava a casa sua e nel suo letto.
Si alzò di scatto ma la testa gli rimbombò ed ebbe un capogiro. Devo aver esagerato ieri sera pensò. Si sdraiò con calma, godendo del silenzio.
Troppo silenzio in effetti. Gli ultimi ricordi che aveva della sera precedente erano con lei sul divano mentre bevevano del whiskey ascoltando musica. Come fosse arrivato nel suo letto e ora fosse in pigiama non gli era chiaro.
Il secondo pensiero che lo venne a trovare fu legato proprio a quel silenzio: non udiva il rumore di nessuna altra presenza in casa.
Si alzò e con i movimenti rallentati dal post sbornia si diresse verso il bagno, convinto di trovare la porta chiusa. Era invece spalancata e la stanza completamente vuota.
Come poteva essersene andata senza lasciare nessun messaggio, un saluto, nulla.
Quasi come non fosse mai esistita.
Poi si ricordò dei bigliettini sul frigo.
Raggiunse la cucina convinto di trovare qualcosa, ma non appena oltrepassò il salotto si bloccò come trattenuto da una fune troppo corta.
Tornò sui suoi passi e vide una cosa strana: la pila di giornali e libri era tornata ad occupare la metà inutilizzata del divano.
Aprì l’armadio in camera da letto e trovò la coperta e il cuscino perfettamente ripiegati, come se nessuno li avesse usati da anni.
Si diresse allora in cucina alla ricerca di qualche indizio.
Fu lì che la sua mente vacillò.
La tavola era stata lasciata intatta dalla sera prima, ma era apparecchiata per una persona, la bottiglia di vino ancora aperta accanto a un solo bicchiere, così come quello del whiskey, con due dita di ghiaccio ormai sciolto.
Si giocò l’ultimo gettone afferrando dal cassetto il telefono cellulare; entrò nel menù, poi nel registro delle chiamate effettuate, poi in quelle in uscita: nessuna chiamata.
Nella sua testa iniziarono a comparire supposizioni e ragionamenti che si sovrapponevano mentre riviveva l’intera vicenda alla ricerca di conferme.
Trascorse l’intera giornata e i giorni seguenti a ripensare a quella storia.
Non riuscì a darsi pace non avendo nessuna certezza alla quale aggrapparsi se non la convinzione in ciò che aveva visto e vissuto.
Era tutto così reale, che non poteva averlo sognato.
Trascorsero i mesi fino a quando ogni dettaglio sbiadì nei ricordi. Ebbe la tentazione di raccontare tutto a qualcuno, magari a Lucio, cercando un po’ di comprensione, ma ripassando i dettagli di quella donna ne mancava sempre uno, fondamentale: non sapeva il suo nome.
Tornò a vivere come sempre, riprendendo i soliti ritmi, iniziando a scrivere un racconto basato su quella storia, fingendo fosse vera.
Una notte a fine turno, nella pausa caffè con Lucio e gli altri, gli cadde per sbaglio lo sguardo sulla prima pagina di un quotidiano nazionale:
“Senatore arrestato, incastrato dalla moglie.”
Lo afferrò e lesse l’articolo di approfondimento che raccontava di come il noto imprenditore Claudio Arrighi, senatore della Repubblica, abbia ricevuto tangenti e fosse a capo di una fitta rete che riciclava denaro pubblico.
L’articolo continuava scendendo in particolari dettagliati.
Nell’intera organizzazione della quale lui era il capo indiscusso cooperava perfino la mafia.
Nonostante ci fossero delle indagini che duravano da anni, sebbene con molti depistaggi e mai nulla di concreto, la prova schiacciante che lo avrebbe condannato in via definitiva era costituita dalle fotocopie di una agenda di pelle con nomi e importi di denaro, annotati minuziosamente al suo interno.
Il plico era stato inviato alle redazioni di tutti i giornali del Paese.
Alcuni sospetti puntavano alla moglie Agnese, della quale però si erano perse le tracce da giorni, così come di Fabio, il loro unico figlio maschio.