Nebbia

La nebbia ci protegge da chiunque e da qualunque pericolo.
Ci separa dal mondo. Tutti presenti, ma tutti apparentemente invisibili.
Il tempo sembra dilatarsi.
In realtà il tempo è sempre lo stesso, mica cambia: un’ora resta sempre un’ora.
Semmai siamo noi che ci adattiamo, rallentando, accelerando, illudendoci di sospenderlo, di perderlo, di guadagnarlo. Addirittura di venderlo.
Ma lui, il tempo, è sempre lì. Anche nella nebbia. Dove i pensieri si fanno più robusti.
Una stranezza: qualcosa di invisibile che acquista consistenza in una condizione che tenderebbe più a nascondere che a mostrare.
Come Christo quando impacchettò la statua di Leonardo in Piazza della Scala. Che cosa bizzarra: era sempre stata lì, ma ora che era nascosta, sembrava più presente.
Sottrarre per rendere visibile.
In fondo come fa la nebbia: copre tutto ad un primo sguardo, rivelando poco alla volta mentre la si attraversa. Ti costringe all’attenzione.
E la nebbia ha costretto quella sera Michele a porre attenzione su alcuni aspetti della sua vita che aveva deciso di tenere coperti da una coltre fumosa di altro: lavoro, amicizie, compagnie momentanee. Tutto pur di non dover rimanere faccia a faccia con se stesso.

A Milano la nebbia non è una sorpresa.
Anche se alla vigilia di Natale la neve avrebbe reso questa storia perfetta, purtroppo quella sera non fu possibile averla.
Purtroppo per Michele, ovviamente.
Con una bella nevicata natalizia non si sarebbe dovuto trovare ad affrontare questo muro di riflessioni e avrebbe potuto proseguire la sua vita, nonostante le minuscole crepe sulla facciata che era riuscito a nascondere con un’abilità resa perfetta dopo anni di collaudata pratica, ma che all’interno celava una costruzione traballante, sempre sul punto di crollare miseramente da un momento all’altro.
Un altro errore, apparentemente senza conseguenze, fu farsi venire a prendere con l’auto da Piero, l’autista di suo padre, sebbene la distanza tra studio e casa fosse di un paio di chilometri.
Dopo ore trascorse in stanze chiuse, illuminate da neon giallastri e moquette che sapevano di sigaretta, l’idea di incontrare dell’aria fredda che gli sbattesse in faccia gli avrebbe donato quella breve illusione di essere ancora vivo e autonomo nelle scelte.
Invece suo padre insistette, trasformando i lati positivi nel fare una passeggiata serale, in elementi negativi e fastidiosi.
Chi solitamente fosse abituato a usare l’espressione tale padre tale figlio in questo caso sbaglierebbe di molto. Michele, come ormai era abituato a fare, accettò di buon grado.
Chiuse le ultime cartelline con le pratiche ancora in lavorazione, le sistemò in ordine alfabetico nello schedario del suo ufficio, spense il computer, chiuse a chiave il cassetto della scrivania in larice, spense la lampada da tavolo, indossò il cappotto, salutò Maria, la fedele segretaria prima di suo padre, ora sua fidata assistente, augurò un felice Natale a lei e a tutta la sua famiglia – dimenticando anche quest’anno che Maria è zitella – prese la ventiquattrore e si diresse all’uscita.
Un breve saluto a Giuseppe, il solerte custode del palazzo, prima di compiere quattro passi in libertà e passare dall’ambiente chiuso dell’ingresso, all’ambiente chiuso dell’abitacolo dell’auto. Tempo trascorso all’aria aperta: 3 secondi e 8.
Ogni volta che si trovava seduto su quel sedile posteriore, incontrava la ormai familiare domanda sulle necessità di avere un autista.
Era stata un’idea di suo padre, chiaramente, ma entrambi abitavano a pochi passi dallo studio e non era mai capitato che uscissero per raggiungere i clienti, semmai il contrario.
In caso si fosse presentata quell’eventualità si poteva sempre provvedere ad uno spostamento in taxi.
Muoversi con l’autista sembrava fosse diventata più una necessità a giustificare l’avere un autista, che una comodità.
Ci si poteva anche rinunciare, sia chiaro, ma cosa ne sarebbe stato di Piero? Non lo si poteva licenziare.
Lo studio non ha mai licenziato un suo dipendente in più di 40 anni di attività.
Se poi si fosse saputo in giro? Avrebbero pensato tutti che il rinomato Studio Bonfanti del Notaio Achille Bonfanti situato in Corso Venezia 6 in Milano navigasse in cattive acque.
Non una bella pubblicità per gli affari. Meglio lasciare tutto com’è.

Suo padre si era incaricato di scegliere personalmente la vettura. Aveva optato per una Mercedes classe E berlina Avantgarde di colore Nero Ossidiana, dopo che era rimasto affascinato dalla brochure che recitava: La Classe E Berlina ti accoglie in un ambiente sicuro e confortevole. Gli interni trasmettono un senso di pace e di profondità. Materiali pregiati avvolgono gli elementi decorativi dalle forme morbide e arcuate che si sviluppano sinuosamente dalla plancia portastrumenti fino alle porte. I sedili scultorei offrono l’autentico comfort Mercedes-Benz nei lunghi viaggi.
Di certo non fece nessun viaggio che andasse oltre i cinque chilometri, ma Michele si rese conto che sebbene non comprendesse totalmente la definizione di sedili scultorei, condivideva con la brochure la sensazione di pace.
Si muoveva silenziosa tra i banchi di nebbia, come se la chiglia di una nave galleggiasse in una dimensione lattiginosa nella quale è quasi impossibile avere punti di riferimento. Si sentiva protetto.
In auto solitamente la distanza dallo studio alla casa non superava i 4 minuti, ma complici le condizioni meteo, il centro città e la corsa agli ultimi regali, complicarono i pochi metri in un viaggio.
Superati i dieci minuti bloccato in un traffico che non sembrava scemare, ebbe una rapida intenzione di scendere, salutare Piero, augurare un felice Natale a lui e a tutta la sua famiglia – lui sì che era sposato con figli – e proseguire a piedi riuscendo a godere almeno in parte del suo piano principale.
Ma gli tornarono in mente i discorsi di suo padre sul far sentire sempre tutti utili e adeguati al proprio compito, gli parve quindi di fargli un torto e rimase dov’era.
Restò impassibile anche quando quest’ultimo, qualche minuto più tardi gli chiese se avesse avuto fretta di rientrare a casa e avesse preferito proseguire a piedi.
Gli rispose che non c’erano problemi, che non aveva nessuna urgenza e che a casa i preparativi per la cena sarebbero andati avanti anche senza la sua presenza.
Lo ringraziò per l’interesse e tornò a guardare fuori dal finestrino, interessato da quel poco che riusciva a decifrare attraverso la nebbia che sembrava addirittura aumentare.
Uomini d’affari con pacchi e pacchetti; signore con grandi sacchetti di gastronomie e pasticcerie.
Fantasticava su come fossero le loro giornate, le loro case, le loro cene. Di cosa si occupavano quelle persone, che lavoro facevano? Era ciò per cui avevano studiato anni? Era il sogno della loro vita?
Ad esempio, quell’uomo al telefono, sbucato all’improvviso, che camminava a passo svelto districandosi tra le auto in coda, starà raggiungendo la persona che ama? Ed è corrisposto? La sua vita è come la immaginava o ha dovuto accontentarsi?
Ciò che era iniziato come un gioco innocente per ingannare il tempo, si stava trasformando in un esperimento dai risvolti inaspettati.
Perché è sempre facile porre le domande agli altri. Facile tanto quanto dare i consigli: si ha sempre la soluzione giusta ai problemi altrui.
Ma quando la freccia indica noi, siamo altrettanto saggi? Michele non era ancora arrivato a quella parte del gioco e continuava pericolosamente ad ampliare il catalogo di domande su ciò che era diventato a tutti gli effetti il suo quiz preferito.
Quando non trovava persone per strada a cui porre quesiti a senso unico, provava con i passeggeri delle auto che riusciva a scovare. Non si poneva limiti, era diventato un interrogatorio all’umanità intera. Il lungo biscione di automobili intanto avanzava.
Rimaneva solo un incrocio prima della svolta verso casa; pochi secondi dopo Piero portò l’enorme astronave Nero Ossidiana al civico tre.
Michele percorse con lo sguardo l’intero palazzo, fino a raggiungere l’ultimo piano.
Venne attirato dalle luci intermittenti che provenivano dalla finestra del suo salotto, probabilmente la servitù aveva terminato di aggiungerle al nuovo ed enorme albero di Natale che Beatrice, sua moglie, aveva acquistato. Uno differente ogni anno, nessuna discussione in merito.
Si può pensare di trattare con qualunque tipo di rapitore o terrorista e avere la meglio, ma non con sua moglie. Specialmente sugli alberi di Natale. Quindi potete anche riporre ogni speranza.
Si immaginò per un attimo se le tartine con l’aragosta quest’anno sarebbero state servite prima o dopo i voulevant al caviale. Volle invece lasciarsi sorprendere dal tipo di champagne servito per la cena e non tentò di indovinare.
In quei pochi secondi altre velocissime supposizioni gli affollarono la mente come schegge, fino a quando perse il controllo della situazione per un breve e sconsiderato momento nel quale tutte le domande che aveva posto per gioco agli sconosciuti che aveva incrociato, gli si ritorsero contro.
La freccia stavolta, per la prima volta, non puntava sugli altri, ma su di lui. Tentò di dissimulare. Credeva di essersi convinto.
E allora perché non riusciva ad aprire la portiera e scendere dall’auto?

Michele nacque in un mercoledì di Maggio.
Era un giorno che potremmo considerare normale: soleggiato alla mattina, al pomeriggio qualche nuvola. Nessuna ricorrenza particolare da festeggiare.
Non decise da che parte schierarsi nemmeno per la nascita. Rimase esattamente a metà settimana. Mercoledì.
Il suo peso era nella norma, il parto filò liscio. Nessuna complicazione, nessun tratto distintivo.
Dormiva bene, mangiava a orari regolari. Ci sono genitori che firmerebbero col sangue per avere un figlio tanto diligente.
Mamma e papà gli vollero bene fin da subito nonostante non assomigliasse a nessuno dei due.
Ma lo cercarono tanto, dopo un aborto spontaneo che li aveva abbattuti parecchio.
L’intenzione di regalargli una sorellina o un fratellino era forte, ma non vollero forzare la mano al destino e preferirono concentrare tutte le attenzioni sul primogenito.
Gli anni trascorrevano senza nessun ostacolo degno di nota.
Cresceva circondato da molte attenzioni, ma mai esagerate. Marta, sua madre, decise di non affidarlo a nessuna tata. Sospese il lavoro di disegnatrice di tessuti per dedicarsi a lui a tempo pieno.
Anni prima entrò in una leggera depressione quando provò a rimanere incinta senza successo; depressione che si trasformò in invidia, mista a leggera rabbia, ogni volta che incontrava delle sue amiche che avevano partorito da poco e che avevano scelto di non allattare per non rovinarsi il seno e assumere una tata che badasse ai figli.
Si domandava il motivo per cui una donna decida di mettere al mondo una vita per poi non avere nessuna intenzione di occuparsene. L’essere umano è fatto per riprodursi, ma non è obbligato, si ripeteva.
La rabbia scaturiva dal fatto che lei, invece, avrebbe rinunciato a tutto pur di potersi dedicare a proteggere, accudire e crescere questa nuova vita, riscoprendo cose assopite e imparandone di nuove.
Quando riuscì a rimanere incinta fu al settimo cielo. Cercò di proteggersi da ogni ipotetico pericolo che avrebbe potuto mettere in crisi la gestazione.
La natura è perfetta, ma a volte pecca di sadismo. Dopo che abortì spontaneamente, cadde per mesi in un pozzo buio. Tutti si preoccuparono per la sua salute. Si allontanò dalle amicizie e per un periodo cercò di trovare sollievo da un analista.
Si rifiutò di iniziare una terapia farmaceutica. È sempre stata contraria alle medicine. Credeva che ogni aspetto della vita, bello o brutto che fosse, andasse affrontato in modo lucido, senza scorciatoie chimiche. 
Con forza e pazienza riuscì a risollevarsi e a distanza di un anno, forse premiata da quello stesso destino che volle metterla alla prova o che si era distratto per un attimo, rimase di nuovo incinta.
Questa volta andò tutto bene e nacque Michele.
Prima l’asilo, poi le elementari e le medie, tutte vicino a casa.
Il carattere si stava formando con tranquillità. Era molto portato per il disegno, per nulla invece per le materie scientifiche.
Imparò fin da subito a leggere senza grossi impedimenti, aveva una spiccata propensione ad accostare i colori, almeno così dicevano le maestre, ma avrebbe preferito saltare un pasto piuttosto che imparare le tabelline o eseguire frazioni, espressioni e quell’altra roba lì.
Il primo grande scoglio da superare fu la scelta del liceo. Si ricorda perfettamente il momento in cui avvenne la chiacchierata con i suoi genitori.
Erano in cucina, suo padre stava facendo colazione prima di andare in studio, sua mamma stava leggendo una rivista di piante e giardini. Forse si chiamava proprio Piante e giardini.
In lontananza, dal salotto, il giradischi suonava So what di Miles Davis. Michele, ancora in pigiama, prese dalla credenza un bicchiere per il succo d’arancia quando suo padre si sovrappose alla tromba di Miles facendo una semplice domanda: «Hai deciso che liceo scegliere?».
Shakespeare diceva che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni.
Ma sono le decisioni che prendiamo a determinare il nostro destino.
Non ne esistono di piccole o di grandi. Ogni volta che ci troviamo ad un bivio la nostra vita si trasforma.
Crediamo che il coraggio risieda nel tornare sui propri passi, ammettendo un errore.
E se invece fosse ostinarsi nel continuare su una strada, consapevoli che non ci porterà dove vogliamo? Quanto coraggio c’è in una decisione di questo tipo? E quanta incoscienza?.
Michele non aveva una risposta a portata di mano. Cercò di prendere tempo, promettendo che avrebbe deciso entro sera. Afferrò il bicchiere col succo d’arancia, salutò suo padre e si chiuse in camera.
Nel frattempo Miles continuava imperterrito a suonare la sua tromba. Lui non si è mai fatto problemi a prendere decisioni, cambiarle in corsa, rivedere i piani. Sono convinto che Michele, passando a fianco al giradischi lo abbia invidiato.
Fu il pomeriggio più lungo della sua vita. Rimase sul letto a fissare il soffitto per ore, prima sperando che dall’intonaco bianco potesse comparire una scritta con la risposta giusta. Poi si sarebbe accontentato di una risposta qualsiasi, ma nulla.
Il soffitto continuava a fare il soffitto, lasciandogli ogni responsabilità.
Aveva provato a scavare nella memoria alla ricerca di un indizio che potesse chiarire tutto, ma era davvero complicato. Si stava agitando quando d’improvviso gli comparve un ricordo.
Era la vigilia di Natale di molti anni prima, credo fosse il 1987 perché quell’anno dopo tanta insistenza riuscì a farsi regalare il Nintendo 8 bit uscito nemmeno un mese prima.
Ogni volta che vedeva la pubblicità in televisione chiamava i suoi genitori per raccontare di quanto fosse prodigioso: c’era Mario Bros. che doveva salvare la principessa rinchiusa in un castello e assieme al joystick c’era anche Zapper, la pistola con la quale si giocava a Duck Hunt. Questo copione ripetuto ogni volta che vedeva lo spot. In pratica in fascia serale ogni dieci minuti circa.
Capì di essere riuscito nell’impresa non appena vide il pacco infiocchettato sotto l’albero.
Le dimensioni della scatola non potevano mentire.
Cercò invano di convincerli a scartare i regali in anticipo di qualche ora. Nulla da fare.
In casa Bonfanti la regola era sempre la stessa: cena della vigilia con gli amici più cari e pranzo di Natale con i familiari più stretti.
E così il citofono iniziò a suonare e lentamente il salotto si popolò di facce amiche, tutte sorridenti e vestite a festa.
La cucina si riempiva di bottiglie di vino, panettoni, torroni e dolci di ogni tipo. Qualche bottiglia di whiskey e champagne per chiudere la serata e si era pronti a prendere posto: gli adulti al lungo tavolo centrale e i bambini ad uno leggermente più piccolo, ma abbastanza vicino per un rapido controllo a campione.
Tutto si svolse come sempre in un’atmosfera di sincero affetto, arrivando al consueto brindisi. Una delle tradizioni di queste cene era che, a turno, un componente per ogni famiglia sollevasse il calice augurando qualcosa di importante.
Il giro si completò quando fu il turno di suo padre: ringraziò tutti per la bellissima serata, per la fortuna nell’avere amici così importanti e rari, brindò in tremendo anticipo al nuovo anno, alla sua famiglia e a suo figlio, con la speranza che un giorno continuasse la tradizione, diventando notaio ed ereditando lo studio.
Quella breve frase, pronunciata forse in un eccesso di felicità incontrollata, ritornò molti anni dopo improvvisa e limpidissima nella mente di Michele.
Non sapremo mai se interpretò il ricordo come un segno del destino, o molto più semplicemente, come una soluzione indolore ad un problema che lo stava attanagliando da ore.
Decise che fosse la soluzione più ovvia e che avrebbe messo tutti d’accordo.
Quando la raccontò a cena, tralasciandone il motivo, ci fu un breve secondo di silenzio. Suo padre restò per un attimo incredulo, ma si complimentò con lui.
Sua madre invece, si accodò chiedendogli se fosse convinto dello Scientifico come indirizzo e se avesse voglia di pensarci ancora un po’.
Michele disse che era occhei, che andava bene così e il tempo riprese a scorrere. 
Le mani sudate, il respiro che fatica a compiersi.
Il cuore che si comporta come dopo due rampe di scale fatte di corsa. E quella terribile sensazione di essere nel posto sbagliato, al momento sbagliato.

Michele aveva provato a non pensarci, ma eccolo: il nuovo, primo giorno di scuola: Liceo Scientifico Statale Alessandro Volta.
Un gruppo di ragazzi radunati nell’Aula Magna in attesa che le classi si formino.
Dal microfono, la voce del Preside leggeva lentamente i nomi il cui eco rimbombava nella sala accompagnando ogni singolo studente al proprio gruppo. Gli capitò la sezione A.
Mentre percorreva i corridoi cercava di scrutare le facce di quelle che sarebbero state le persone con cui avrebbe convissuto per cinque anni. Bocciature permettendo.
Entrato in classe si sedette al primo banco disponibile. Non in prima fila, ma nemmeno in fondo.
In mezzo, un po’ decentrato verso la finestra, gli parve la posizione migliore. Il Prof. Rinaldi, docente di lettere fece per la prima volta l’appello. Una breve introduzione al programma, poi liberi tutti.
Michele capitò accanto a Fabio. O meglio, nessuno dei due conosceva il nome del rispettivo compagno di banco, erano troppo agitati e impauriti per presentarsi.
Come se sul fondo fosse rimasta una leggera speranza che dopo quel giorno non si sarebbero più dovuti rivedere. Le ragazze invece, come sempre, sembravano avere già fatto gruppo.
Ritornato a casa, sua madre gli chiese come fosse andata, ma gli fu difficile da spiegare; era tutto confuso, tutto estraniante.
Perché un giorno parti per le vacanze e quando torni sei in una scuola nuova, con compagni nuovi, professori nuovi e addirittura un banco nuovo.
Michele non era pronto, aveva bisogno di fare chiarezza e di tempo per riordinare le idee. Ma ci si adatta a tutto e riuscì a costruirsi uno spazio anche in quel nuovo mondo.
Nei giorni seguenti molti compagni di classe cambiarono di posto, lui e Fabio invece rimasero vicini. Ruppero subito il ghiaccio quando, durante un esercizio, gli prestò lo sbianchetto per correggere un baffo di inchiostro sul foglio.
Si presentarono ufficialmente durante la ricreazione. Erano due personalità decisamente diverse e, per questo, complementari e inseparabili.
Divennero grandi amici: Fabio abitava non lontano dalla scuola e spesso trascorrevano i pomeriggi a studiare l’uno a casa dell’altro. Almeno questa era l’intenzione raccontata alle rispettive madri.
In realtà la maggior parte del tempo si districava tra videogiochi, partite alla console e Playstation.
Quando uno dei due era costretto a casa per una influenza telefonava immediatamente a l’altro per mettersi in pari con quanto accaduto in classe: news, gossip, voti, interrogazioni, figuracce. Tutto.

I giorni trascorrevano, così come i quadrimestre. La poca predisposizione di Michele per le materie scientifiche era decisamente venuta a galla, ma nulla che una cura ricostituente di ripetizioni non potesse risolvere.
Con una carriera scolastica, tanto per cambiare nella norma, trascorse indenne i primi tre anni di Liceo.
Alcuni compagni si persero per strada e vennero bocciati, un paio invece cambiarono scuola. Fabio fu tra questi. Suo padre dovette trasferirsi a Roma per lavoro. All’inizio sembrava una condizione temporanea, ma divenne definitiva e, a malincuore, il resto della famiglia lo seguì.
Per Michele fu un brutto colpo. Si promisero che si sarebbero messaggiati tutti i giorni ed effettivamente andò così per molti mesi. Ma gli impegni quotidiani e l’incostanza di quell’età li allontanò fino ad una resa silenziosa. 
Arrivammo così alla fine del quarto anno. Già si parlava di maturità e i professori avevano organizzato delle simulazioni in classe, per permettere ad ogni alunno di farsi trovare preparato al grande appuntamento. Ma era un traguardo ancora molto distante; ora si doveva pensare alle vacanze.

L’estate per Michele significava solo una cosa: la compagnia della vela. Fin da bambino i mesi di luglio e agosto li trascorreva a Caprera, nella casa di famiglia. Per lui il mare era senso di libertà, qualcosa di immenso e indescrivibile che non gli aveva mai messo soggezione, ma, al contrario, gli donava sicurezza, come forse non ne riusciva a trovare sulla terra ferma.
Fin da piccolo iniziò a prendere lezioni, diventando nel corso di una decina di anni, prima assistente degli istruttori, successivamente egli stesso istruttore dei più piccoli.
Ogni occasione era favorevole per un giro in solitaria.
In mare aperto, verso il tardo pomeriggio, quando il sole iniziava a calare e la luce a farsi più avvolgente, gli piaceva fingere di perdersi in quella distesa blu dove tutto era possibile.
Lì non aveva nessuna decisione da prendere, nessuna pressione, ogni pensiero sembrava incastrarsi perfettamente tra la volontà e la realizzazione. Era tutto chiaro, facile. Come un puzzle di cinque pezzi.
A terra aveva una compagnia ben rodata da anni di frequentazioni.
Tutti figli di amici dei genitori che crebbero assieme imparando a conoscersi. Ed era bellissimo rivedersi ogni estate per aggiornarsi sull’inverno passato; qualche iniziale momento di imbarazzo e poi si riprendeva come nulla fosse.
Ci si raccontava tutto, esagerando nei dettagli e negli esiti, come solo i maschi riescono a fare: dalle imprese sportive, alle prime ragazze conosciute. Ogni anno, al Centro Velico arrivavano ragazzi nuovi di ogni età che aggiungevano linfa alla vita della compagnia.
Quell’estate ci fu anche Kate.
Era di Houston, aveva un anno in più di Michele ed era capitata lì per via di uno scambio culturale tra la sua scuola e un liceo di Roma.
Decise di rimanere per l’estate dopo che i Nobili e i Rossato le proposero di seguirli in Sardegna come ragazza alla pari, badando ai figli più piccoli e approfittando della madre lingua per tenere in allenamento il loro inglese. Vitto e alloggio compreso, oltre a un piccolo rimborso spese per il disturbo e il biglietto di rientro negli Stati Uniti, a fine estate.
A Michele non importava, ma il rimborso spese doveva essere davvero piccolo perché i suoi genitori definirono i Nobili e i Rossato degli spilorci approfittatori.
A lui interessava Kate, come mai nulla prima nella vita. Negli Stati Uniti c’era stato parecchie volte, ma mai a Houston.
Il suo inglese era ciò che nei curricula viene comunemente definito fluente, sia parlato che scritto; anche se in realtà non era proprio così fluente: capiva perfettamente e si faceva capire molto bene.
Il primo ostacolo era quindi superabile.
Il secondo invece, decisamente più difficile: Kate era bellissima.
Occhi azzurri, capelli alle spalle color castano chiaro, un sorriso che definiremmo Made in USA: ogni dente perfettamente allineato a quello precedente e tutti splendevano di un bianco accecante.
La fotocopia di Emmanuelle Seigner in Frantic. E in effetti avremmo tutti perso la testa, come biasimarlo.
Il compito di Kate si limitava a fare da tata mentre i genitori si godevano la spiaggia, il sole e le gite in barca; quello di Michele di riuscire ad attirare la sua attenzione.
Sfruttando la sicurezza che gli conferivano il mare e la vela in un pomeriggio di sole accecante la vide sola in riva al mare, prese coraggio e si presentò.
Sapeva già tutto di lei, aveva fatto indagini molto approfondite, ma come succede in questi casi, finse di non averla mai notata, dandosi un tono di superiorità e, come succede sempre in questi casi, lo fece maldestramente, perché il sorriso di Kate svelò ogni suo trucco.
Si salutarono con la promessa di rivedersi in giro. Quando e dove non era dato saperlo, ma non gli importava più nulla.
Il piano aveva funzionato, ora sarebbe stata tutta discesa.
I giorni trascorrevano velocemente e ruotavano attorno a lei: la cercava con lo sguardo e quando era in barca con un gruppo di bambini, mutava il suo comportamento tentando di attirare l’attenzione, qualora si trovasse nei paraggi.
Tipo l’ubara. L’ubara è un uccello della famiglia delle otarde, diffuso nel nord Africa.
Per fare colpo sulle femmine, la sua esibizione inizia al tramonto e nel picco della stagione amorosa può protrarsi fino al mattino successivo, anche quando attorno a lui non sembrano esserci pretendenti. Durante questo rituale, raddrizza le piume del collo della testa formando un soffice batuffolo bianco che ostenta muovendosi avanti e indietro per ore.
Ecco, Michele sembrava un ubara, però con il segno dell’abbronzatura del giubbotto di salvataggio.
Tale danza per quanto sembrasse bizzarra, funzionò, perché Kate iniziò a cercare la sua compagnia durante i momenti di pausa.
La presentò al resto della ciurma diventandone in poco tempo parte integrante. Scoprì che amava l’arte, soprattutto quella astratta americana: Jackson Pollock, Franz Kline, Barnett Newman, Cy Twombly, fino a Mark Rothko, il suo preferito in assoluto.
Gli raccontava di come usasse il colore dagli inizi della sua carriera, fino alla svolta vera e propria, quando il suo punto di vista si fece sempre più immersivo trovando nel colore tutte le risposte che cercava.
Michele conosceva Rothko perché aveva visto due anni prima alcune sue tele esposte al MoMa di New York durante un viaggio con i genitori. Ricorda che era rimasto seduto per un tempo lunghissimo a fissarle quasi in trance emotiva.
Non capiva cosa gli stesse accadendo, ma non riusciva a distogliere lo sguardo. Nella mente si accalcavano stati d’animo contrastanti che lo avevano lasciato pensieroso per il resto della giornata.
Era un ricordo potente che aveva seppellito in qualche cassetto della memoria una volta rientrato a Milano. Perché lo aveva rimosso?
Le raccontò tutto e Kate non solo sembrava comprendere perfettamente il suo stato d’animo, ma gli disse che se non lo avesse fatto, avrebbe dovuto visitare per forza la Rothko Chapel a Houston.
Gli confessò che ogni volta che si trovava in preda a un dubbio o costretta a prendere una decisione importante ci andava per schiarirsi le idee. Entrambi sorrisero. A Kate scappò lo sguardo sul display del telefono; era in ritardo per la cena e doveva ancora convincere i bambini a farsi la doccia.
Ogni sera una guerra.
Si salutarono velocemente con un bacio sulla guancia, dandosi appuntamento all’indomani.
Michele rimase seduto sulla sabbia in riva al mare.
Il sole era quasi tramontato, la risacca delle onde attorno agli scafi delle barche produceva un suono ipnotico.
Era frastornato da tutto: dalla bellezza di Kate, dal momento che stava vivendo, dalla conversazione che aveva appena avuto e da quella decisione di Rothko: il coraggio di ritornare sui propri passi e cambiare strada per sentirsi se stesso.
Quella notte non riusciva ad addormentarsi, colto da una agitazione che non lo lasciava riposare.
I pensieri e le immagini si sovrapponevano.
Si alzò dal letto non appena vide comparire la prima luce del sole attraversare le persiane della camera.
Fece colazione da solo, si vestì e uscì a fare due passi, che però non servì a rassettare ciò che aveva nella testa. Era come se una parte cercasse di comunicare con lui; quella che si trovava in fondo all’anima. Quella che nei primi anni di vita galleggia in superficie, vive con noi, ci guida in ogni piccolo gesto del quotidiano.
Quando cresciamo, iniziamo a entrare in contatto con altre persone e con il mondo, scegliamo lentamente di non seguire più i suoi suggerimenti. Lentamente la spingiamo a fondo, sempre più giù. Fino dimenticarci della sua esistenza.
Ma lei, la parte più pura, non è sparita. Non può sparire. Prova sempre a entrare in contatto quando siamo in difficoltà, ogni volta che proviamo disagio nel fare qualcosa che non troviamo giusto.
Tipo la sensazione di indossare un paio di scarpe di mezzo numero più piccolo. Un fastidio accettabile ma pur sempre un fastidio.
Gli ritornò alla mente la storia della rana bollita di Chomsky.
Per l’intera giornata si comportò in maniera strana, preferendo stare lontano da tutti, eludendo le domande sul motivo, persino i messaggi che Kate gli mandò preoccupata nel non vederlo in spiaggia.
Per un momento il loro rapporto si raffreddò. Era come se fosse riuscita a scalfire una corazza che nemmeno lui conosceva, arrivando ad accarezzare una parte sensibile del suo cuore. Per un brevissimo istante era riuscita a entrare in una zona sconosciuta.
L’estate volgeva al termine. Due mesi pieni di strane cose.
Michele e Kate trascorsero gli ultimi giorni come se nulla fosse accaduto. Non le confessò la verità di quel subbuglio interiore del quale lei ne fu, malcapitatamente, la causa.
L’ultima sera la trascorsero assieme, si lasciarono con un lungo bacio che seppellì tante domande e alleviò per un istante il doversi separare. Forse per sempre.
Si scambiarono gli indirizzi e le mail promettendo che si sarebbero tenuti in contatto il più possibile e che non appena ne avessero avuto la possibilità, si sarebbero visti in Italia o negli Stati Uniti.
La mattina seguente all’alba Michele decise di raggiungerla a casa, per un ultimo saluto, ma era già partita per l’aeroporto.
Ad attenderlo, trovò invece un biglietto.
Ciao Mic, conoscerti è stata una cosa bellissima.
Spero di rivederti presto.
Il tempo con te non basta mai.
Segui i tuoi sogni.
Un bacio
Your K

Milano lo accolse pieno di nuove esperienze: era lontano solo da due mesi, ma era come fosse stato in ritiro spirituale.
Aveva una consapevolezza differente, anche se i dubbi rimanevano.
Affrontò l’ultimo anno di liceo e la maturità senza nessun inciampo.
Il rapporto con Kate era costante, sebbene a distanza; si scrivevano mail quasi tutti i giorni e almeno una volta a settimana riuscivano anche a vedersi su Skype con un’unica semplice regola che avevano fissato per sopportare il differente fuso orario: una volta a testa.
Ma a lui ovviamente la cosa non pesava affatto.
Appena ne ebbe occasione, acquistò un libro su Rothko, uno di quelli con all’interno le informazioni più importanti. Aveva anche iniziato ad andare a visitare mostre. Con degli amici quando riusciva a convincerli, da solo o con sua madre, quando non gli riusciva la magia.
Chiacchieravano anche di film, della semplice quotidianità. Di Bucky, il Golden Retriever che Kate amava sopra ogni cosa e che, a modo suo, faceva un po’ ingelosire Michele.
Non si toccava mai l’argomento sentimenti. Entrambi sapevano che se lo avessero approfondito sarebbero finiti in un vicolo cieco.
La distanza prima di ogni altra cosa avrebbe impedito ogni situazione che andasse oltre quel loro rapporto speciale, ma indefinibile.
Erano più che amici, ma non potevano considerarsi l’uno il ragazzo dell’altra. La situazione permetteva questo. E a loro bastava.
All’arrivo del fatidico momento della maturità, i genitori gli chiesero cosa avrebbe voluto in regalo, sebbene sapessero con largo anticipo quale sarebbe stata la richiesta.
E infatti Michele non attese nemmeno un secondo: un biglietto aereo per Houston.
Passò la maturità con un modesto 78/100 attendendo il giorno dei risultati per poter raccontare tutto a Kate, regalo compreso. Voleva farle una sorpresa ed era riuscito a non lasciare trapelare nulla fino ad allora.
Allo stesso tempo c’era anche una seconda questione da affrontare: l’università.
Gli sembrava talmente vivo il ricordo di quando si trovò a fare la stessa scelta per il liceo ed ora doveva ripetere il percorso.
Come per l’episodio precedente, credette che un cambio di carreggiata fosse un rischio troppo grosso e, nonostante questa volta non fu pienamente convinto della decisione, scelse di proseguire sulla strada che aveva indicato a se stesso anni prima: Laurea in Giurisprudenza, pratica notarile di 18 mesi presso lo studio di suo padre, concorso per diventare a tutti gli effetti notaio e, un giorno, sedere sul trono dello studio Bonfanti, sito in Corso Venezia, 6 in Milano.
Provò ad avanzare di qualche capitolo il DVD della sua vita, cercando di immaginarsi in un perfetto completo sartoriale, entrare in una sala riunioni per un meeting con un cliente, accompagnato dalla sua assistente e dal resto del team.
Ebbe un brivido che si interruppe a metà schiena. Si concentrò su altro e andò a fare una corsa al parco dietro casa. Al rientro, sembrava non fosse rimasta traccia di quel pensiero. Si fece una doccia, cenò con la famiglia e attese il momento di collegarsi con Kate per raccontarle tutto.
Nell’attesa che il collegamento raggiungesse Houston, il cuore accelerava e le mani cominciavano a tremare leggermente: chissà come avrebbe preso la notizia del viaggio, se le avrebbe fatto piacere vederlo, cosa si sarebbero detti, cosa sarebbe successo, cos… Kate apparve sullo schermo. Il tempo dei dubbi era terminato.
Parlarono per quasi mezz’ora come solito riscaldamento per la confidenza, finché Kate gli chiese come fossero andati gli esami e se avesse avuto finalmente i risultati.
Dovette confessare tutto: le disse che erano andati bene, come le aveva anticipato, sapeva che lo scritto era stato buono, l’orale con qualche incertezza, causata da un paio di domande stronze del commissario, ma ce l’aveva fatta.
E adesso doveva scegliere come proseguire con gli studi, ma che avrebbe preferito dirglielo di persona perché il regalo che aveva scelto era un biglietto per Houston.
Due settimane da trascorrere finalmente insieme. L’avrebbe potuto portare a visitare la Rothko Chapel, conoscere i suoi amici, vedere la città e i suoi posti preferiti.
Non doveva preoccuparsi del soggiorno, perché gli bastava sapere la zona in cui Kate viveva per trovare un posto in cui soggiornare.
Era tutto organizzato, ma voleva attendere i risultati per farle la sorpresa. Non le diede il tempo di inserirsi in nessuno spazio libero del monologo che, più trascorreva il tempo, più si infittiva di informazioni, dettagli, orari, coincidenze, indirizzi e mete turistiche. Non voleva fermarsi, perché temeva che se l’avesse fatto avrebbe perso il filo del ragionamento.
A dire il vero, per un brevissimo attimo aveva avuto l’intenzione di simulare una disconnessione per lasciare che Kate riflettesse così da non assistere in diretta alla sua reazione.
Ma non si permise. Terminato di parlare, fece un respiro molto profondo e attese.
Kate rimase per un paio di secondi zitta e immobile, come se il collegamento fosse davvero caduto. Invece mosse gli occhi e quindi, no, la connessione aveva retto.
Chiunque avrebbe notato l’imbarazzo sul suo volto: Michele non riusciva a leggere nulla in quella espressione e iniziava ad agitarsi, le chiese cosa ne pensasse e che se fosse stato tutto troppo precipitoso si poteva sempre rivedere i piani.
Il viso di Kate esplose in un sorriso che andava dall’emozione all’agitazione, divenne rosso e gli rispose che era davvero felice e si scusò se fosse sembrata fredda, ma era davvero sorpresa, perché sperava potesse accadere, ma ovviamente comprendeva la situazione e la distanza.
In un attimo le si erano accumulati tantissimi pensieri e si era bloccata, poi rise di nuovo, questa volta in maniera più rilassata. Andarono avanti a chiacchierare ancora per un’ora abbondante e si lasciarono promettendosi che la volta successiva avrebbero dovuto raccontarsi a turno tutti i luoghi che avrebbero voluto visitare e le cose che avrebbero voluto fare.
Michele quella notte non riuscì a dormire dall’emozione. Ed era sicuro che anche Kate provasse lo stesso stato d’animo.
Si alzò dal letto alle prime luci dell’alba. Fece subito colazione, aprì il portatile e iniziò a compilare la sua lista.
Al primo posto, nemmeno a dirlo, c’era la Rothko Chapel. Ci pensò attentamente e decise di non volere aggiungere altro, perché per tutto il tempo della vacanza, avrebbe voluto provare a vivere come se fosse nato lì, senza fare il turista, come fosse stato in procinto di iscriversi all’università laggiù.

Arrivò il giorno della partenza: i bagagli erano pronti; nonostante avesse ricevuto in regalo una macchina fotografica con cui ci si poteva fotografare la luna, aveva portato con sé quattro macchinette usa e getta a pellicola.
La pellicola non mente. Lo aveva sentito dire tanti anni fa e anche se era consapevole fosse una frase che lasciava a desiderare, gli rimase in testa.
Salutò sua mamma che, ovviamente, si raccomandò di scrivere alla prima occasione. Suo papà lo stava aspettando in macchina per accompagnarlo all’aeroporto. Imbarcò i bagagli e si pregustò un’ora abbondante prima del volo.
Aveva sempre amato gli aeroporti: li considerava vere e proprie città che contano milioni e milioni di abitanti, tutti diversi, tutti estranei tra loro e tutti in transito da un posto ad un altro.
Una città fantastica, dove non esiste una lingua ufficiale, non esiste un sindaco o un presidente né una squadra di calcio. In un grande aeroporto ci si potrebbe tranquillamente vivere.
Immaginare chi fossero gli sconosciuti con i quali incrociava lo sguardo per un attimo: che lavoro facessero, da dove venissero, dove fossero diretti.
In quel momento immaginava di trovarsi dalla parte opposta del quiz. Gli sarebbe piaciuto se tutte queste domande gli fossero state poste, perché in quel momento aveva tante risposte da dare ed era felice di condividerle.
Posto 41 lato finestrino.
L’aereo decollò.
Era fatta.
In ogni viaggio che si rispetti, i primi momenti sono sempre dedicati a sistemare borse, giacche e oggetti che nella fretta vengono sempre messi in posti improbabili, salvo poi riprenderli per sistemarli in modo più ordinato.
Una volta spento il segnale delle cinture, come in una improbabile coreografia, ogni passeggero si alzò dal proprio sedile e iniziò a compiere gli stessi movimenti: chi prima, chi dopo, chi addirittura in contemporanea.
Il primo scalo era a Francoforte, il secondo a Chicago. Tra questi fortunatamente poche ore di sosta.
Cercò di organizzare le ore di volo, ascoltando musica, leggendo, guardando film e dormendo.
Attraverso lo schermo montato sul poggiatesta del sedile di fronte a lui, cercò subito un film.
Alcuni di questi li aveva già visti, altri non li conosceva, ma dagli attori e dalla locandina non sembrava fossero interessanti.
Non trovò nessuna prima visione, ma siccome la prima tratta non era molto lunga e l’attenzione era ancora sopraffatta dall’agitazione, si rifugiò in qualcosa che non richiedesse impegno e che lo confortava: Major League. Ebbe così tanto successo che ne seguì un sequel, dove Wesley Snipes che nel frattempo era diventato famoso venne sostituito e da un, terribile, terzo ed ultimo capitolo della trilogia a ribadire se mai ce ne fosse bisogno di quanto l’essere umano debba necessariamente scontrarsi contro il muro dell’ovvio piuttosto che fermarsi quando è ancora in pista.
Era quel genere di film nel quale poter tornare a rifugiarsi all’occorrenza: trame semplici, commedie veloci, con un montaggio talmente serrato da non poter annoiare, sebbene l’intera trama si potesse riassumere su un tovagliolo da bar e una durata che raramente superava l’ora e mezza.
Incarnava un’estetica tutta U.S.A., quando gli Stati Uniti rappresentavano ancora il sogno americano e quando in Italia la prima serata iniziava alle 20.30 e non alle 22.00. Sembra incredibile a pensarci, ma è successo davvero.
La Hostess aveva iniziato ad avvisare i passeggeri che stava per iniziare la manovra di atterraggio a Francoforte, proprio quando Charlie Sheen – Ricky Vaughn entra in campo sulle note di Wild Thing con la sua inconfondibile divisa dalle maniche strappate e gli occhiali da vista neri dalla montatura spessa. 
Scese dall’aereo canticchiando la canzone sottovoce, mentre raggiungeva il gate per prendere la coincidenza.


Wild thing, you make my heart sing
You make everything groovy, wild thing…

Un paio di film, qualche ora di sonno e parecchie passeggiate lungo l’aereo più tardi, arrivò all’aeroporto Intercontinentale George W. H. Bush di Houston.
Cercò di fare più in fretta possibile per raggiungere l’uscita passeggeri dove, finalmente, tra decine di facce sconosciute i suoi occhi incrociarono il viso di Kate.
Per mesi aveva visto solo quello su Skype, quasi da non ricordare avesse anche un corpo.
Si abbracciarono prima ancora di salutarsi, il viaggio in macchina verso casa servì a sbrigare le questioni pratiche sul volo e argomenti affini. Per quanto Kate e i suoi genitori avessero insistito per ospitarlo a casa loro, Michele preferì non essere di troppo intralcio decidendo di prenotare una piccola stanza in un ostello non troppo lontano.
Nonostante il jet lag e la stanchezza non volle perdere tempo: lasciò i bagagli, fece una doccia e la sua vacanza poteva iniziare.
In quelle due settimane cercò risposte a domande che consciamente nemmeno credeva di essersi posto. Conobbe gli amici di Kate, sperimentò come sarebbe potuta essere quella vita, lontana dalle solite abitudini e con nuovi punti di riferimento.
Più trascorrevano i giorni e più mise a fuoco una sensazione che all’inizio sembrava di disagio, ma che attribuiva ambientamento.
Capì che la questione non era legata al luogo né alle nuove amicizie. Era Kate.
Il rapporto che avevano creato in quell’estate e che avevano tenuto in piedi per tutto quel periodo non era diventato altro. Due mesi indimenticabili che avevano costruito un legame forte, ma che era rimasto tale.
Entrambi avevano pensato che il non voler indagare oltre fosse solo questione di distanza fisica e che a nulla sarebbe servito entrare in domande troppo fonde, dove ci sarebbe stato il rischio di perdersi e di non trovarsi più.
Incontrarsi di persona, fu l’unica soluzione. Semplicemente poteva essere e non è stato e la risposta gli si presentò di colpo grazie, nemmeno a dirlo, a Rothko.
Arrivarono alla Rothko Chapel in tarda mattinata di un martedì ed erano soli, a parte una coppia di tedeschi di mezza età che uscirono dopo pochi minuti.
Diedero assieme uno sguardo veloce all’intero spazio, dopodiché si separarono in religioso silenzio.
Michele si sedette su una delle panche di legno a disposizione e iniziò a osservare tre tele enormi che, unite, sembravano la porta di accesso ad una dimensione parallela.
Nonostante i colori fossero scuri, la sensazione era di tranquillità, grazie anche alla fortissima luce del sole del Texas che illuminava la stanza attraverso il soffitto.
Aveva appena scoperto che colore avesse il buio e non lo temeva.
In un primo momento associò quella rivelazione a una specie di illuminazione laica, ma gli sembrò una cosa troppo importante. Lui che non si era mai interrogato sull’esistenza di Dio, almeno, non in maniera approfondita. Non si reputava un credente, bensì fosse comunque attratto dalla spiritualità più che da una religione che dettasse regole sopra le altre.
In quel luogo la sua riflessione gli sembrò avere senso; lì dove i testi sacri di tutte le religioni convivevano in armonia, posizionati uno accanto all’altro e liberamente consultabili.
Fissando un punto preciso della tela, si rese conto che stava vivendo la fine di un percorso, iniziato improvvisamente su una spiaggia in un pomeriggio di luglio e terminato in quel preciso istante, a migliaia di chilometri da casa.
Vivere qui e ora. Una delle cose più difficili da fare.
Kate, seduta dalla parte opposta, sembrava cercasse risposta ad un dubbio, come confidò a Michele.
Si riunirono guadagnando l’uscita. Non ci fu altro da aggiungere.
Si guardarono e si sorrisero.
Gli occhi di Kate si fecero lucidi, ma mantenne il sorriso. Si abbracciarono e non servì dire o fare altro. Perché le parole sono state inventate per raccontare ad altri quando non si riesce a trasmettere direttamente un’emozione. Raramente accade però che per alcune sensazioni non servano, ma sia sufficiente un gesto, o come per loro, uno sguardo.
Tra loro è sempre bastato uno sguardo.
Si salutarono all’aeroporto con la promessa che si sarebbero rivisti su Skype. Non decisero una data e un orario. Dissero solo presto.
In quella parola c’era tutto e niente. C’era un impegno sottile, una promessa fragile. In quella parola c’era tutto il tempo necessario per andare a fondo ai pensieri.
Senza fretta.
Michele salì sull’aereo.
Posto 41 lato finestrino.
L’aereo decollò.
Si torna a casa.

Con quella spinta emotiva l’indirizzo scelto all’università gli sembrò la decisione più saggia che potesse prendere.
Un nuovo inizio: nuova cerchia di amicizie, nuova routine giornaliera, nuovi impegni e tutto da scoprire.
Prima queste novità lo avrebbero impaurito, ma ora sentiva di avere il controllo delle sue azioni, la consapevolezza nel poter gestire ogni evento.
Frequentava delle ragazze senza impegnarsi con nessuna. Andava alle serate universitarie, a quelle organizzate a casa dei compagni di corso e un paio di volte ne aveva persino organizzate alcune a casa sua col benestare dei genitori che apprezzavano il nuovo Michele e lui ne era orgoglioso.
All’inizio del secondo anno si trovò quasi alla pari con gli esami, poichè sebbene convinto che quella fosse la strada giusta, il rendimento non combaciava con le aspettative.
Era un virtuoso della linea mediana: rimaneva nel centro del suo campo di azione, senza il timore di retrocedere, ma senza nemmeno l’illusione di poter avanzare.
Rientrò da lezione, all’incirca dopo pranzo. Sua mamma era al telefono con sua sorella Carolina.
Terminata la chiacchierata gli disse che la zia lo salutava tanto, che i lavori della casa in campagna erano a buon punto e che tra qualche settimana si poteva, volendo, fare un salto tutti assieme per vederla ultimata.
«Ah, sai chi ho incontrato in centro? La Beatrice Gori, te la ricordi?». Certo che Michele se la ricordava: quando erano bambini, lui e Beatrice trascorrevano ogni momento libero assieme.
I genitori erano grandi amici: serate insieme, feste insieme, vacanze insieme.
Come fratello e sorella in una famiglia raddoppiata.
Poi le questioni lavorative avevano separato quel gruppo che sembrava legato per la vita e i contatti si erano fatti sempre più rari.
«Mi ha fatto impressione, è diventata grande, ma il viso non è cambiato per niente. Abbiamo parlato un po’, mi ha detto che è ritornata a Milano per studiare lettere.
Carlo e Lilly sono ancora a Londra e stanno bene. Che impressione risentire quei nomi. Se penso a quanto tempo abbiamo trascorso assieme. Sembra passato un secolo.
Stasera chiamo la Lilly. Beatrice mi ha detto che non ha cambiato numero. Comunque l’ho invitata a cena domani sera, così vi raccontate un po’ di cose».
E che potranno mai dirsi dopo tutti questi anni?
Era una situazione di leggero imbarazzo, perché restavano due persone che si conoscevano, che avevano dei ricordi in comune, ma erano praticamente due sconosciuti.
Ciò che li teneva nella stessa stanza e che abbatteva il primo strato di diffidenza era la conoscenza tra i loro genitori. Loro due avevano subìto tale rapporto. Michele accettò suo malgrado e proseguì la giornata senza ritornare a quel pensiero.
Il giorno seguente avrebbe avuto lezione solo per due ore e decise di rimanere a casa.
Studiò, andò in palestra e per pranzo si vide con un paio di compagni di corso.
Voleva passare da Blockbuster a noleggiare un DVD, ma prima decise di farsi una lampada al centro abbronzatura vicino casa.
Era in cassa pronto a farsi fare il timbro su una di quelle schede nelle quali il decimo trattamento è gratis, quando vide il piccolo televisore posizionato nell’angolo alto della stanza che trasmetteva le torri gemelle in fiamme.
Michele e la ragazza alla cassa fissarono quelle immagini in silenzio per qualche minuto, cercando di capire cosa stesse accadendo, aiutandosi con i messaggi scritti nel sottopancia della diretta del telegiornale.
Uscì frastornato e incredulo, avendo ancora il pensiero in testa che si potesse trattare di un tragico incidente e non del peggior attacco terroristico nella storia degli Stati Uniti.
Da quel momento, ogni volta che si celebra l’anniversario e che in una conversazione, viene fatta la domanda ma tu dove ti trovavi in quel momento? Michele prova un senso di vergogna.
Perché lui non era a prendere i figli a scuola, non era in un meeting importante. Non si trovava nemmeno al parco col cane.
Michele Bonfanti, martedì 11 settembre 2001, alle 16:46 ora italiana, vide in diretta l’attacco alle torri gemelle di New York dopo aver fatto una esafacciale in un centro estetico gestito da cinesi, mentre si faceva timbrare la tessera per raggiungere la tanto desiderata decima lampada. Tessera sulla quale, per giunta, il suo nome era stato scritto male, ma non ebbe il coraggio di farlo notare.
Scrisse subito a Kate per avere sue notizie; sebbene il loro rapporto non fosse più quello di prima, continuava a essere una persona a cui teneva molto.
Gli rispose che era chiaramente molto scossa, ma che stava bene e che non riusciva a capire come fosse potuto accadere.
Era tutto incredibile.


Beatrice citofonò in perfetto orario.
Il televisore rimase acceso fino a quando non fu necessario sedersi a tavola. Durante la prima parte della cena non si parlò d’altro.
I continui aggiornamenti componevano scenari sempre più terribili, ma si decise di mettere in attesa l’attualità per qualche ora.
Dopo cena Michele e Beatrice uscirono a bere qualcosa. Parlarono dell’imbarazzo che avevano provato entrambi nel rivedersi dopo tutti quegli anni.
Gli confidò che se avesse avuto un po’ di tempo per riflettere, non avrebbe accettato l’invito; non per cattiveria, ma solo perché non avrebbe saputo come comportarsi. Ora però era contenta di quella scelta fatta senza pensarci. Si raccontarono gli anni di arretrati e la voglia di Beatrice di ritornare in Italia e nella casa di famiglia che era sempre lì, a poche centinaia di metri da casa di Michele.
Aveva deciso di spostarsi, dopo che la sua storia con Peter terminò male. Si erano messi insieme al liceo, ma crescendo avevano iniziato a cambiare.
Gli disse che il loro rapporto negli ultimi mesi era diventato come correre una maratona legati assieme da una corda: non potendo andare allo stesso passo, uno dei due era sempre costretto ad aspettare l’altro, col rischio di farsi male.
Non voleva continuare in quel modo e, non appena la storia si concluse, colse al volo l’occasione di poter fare l’università dove preferisse e scelse di tornare a Milano.
A Michele piacque molto la metafora della maratona.
Tornarono a parlare di alcune foto che sua mamma era andata a recuperare che li ritraevano da piccoli, a carnevale: lui col costume da Tartaruga Ninja chiaramente fuori forma, lei a dedurre dal diadema sulla testa da principessa, anche se era difficile capirlo dato che per il freddo in ogni fotografia indossava il cappotto.
Si scambiarono i numeri di telefono con l’intenzione di rivedersi.
A sua mamma Beatrice piaceva molto. Non sapremo mai se le piacesse solo lei in quanto essere umano o se desiderasse tornare al periodo di vita nel quale si sentiva più felice e lei rappresentasse uno Stargate verso quella dimensione.
Ad ogni modo appoggiò senza insistere, ma con ripetuti tentativi, la candidatura di Beatrice come ideale compagna per suo figlio.
Era la prima volta che lo faceva così apertamente.
Dopo un paio di uscite assieme, Michele le confidò che si sarebbero visti a cena. Non raccontò altro sul loro rapporto e la strada che stava intraprendendo.
Marta capì che il suo piano stava procedendo per il verso giusto e gli propose di andare alle Ex Telerie, un locale di alcuni amici che aveva aperto da poco ricavato, appunto, da una vecchia teleria riconvertita in ristorante.
Uno di quei luoghi con i mobili di recupero, le tovaglie di lino e le pareti in cemento lasciate volutamente nude, con lampade di design a creare atmosfera, cercando di giustificare 18 euro per degli spaghetti al pomodoro.
Michele si fidò perché garantivano i suoi genitori e Marta in persona si incaricò di prenotare.
La cena andò bene, così come i mesi successivi.
Michele e Beatrice facevano coppia fissa con somma felicità di Marta. Commento del padre: non pervenuto.
Ma la compagnia si stava riunendo: i genitori di Beatrice vennero a Milano per qualche giorno così che alle telefonate poterono seguire degli abbracci veri e propri.
Il rischio nel decidere di non decidere, seguendo il flusso della vita lo portò in pochi anni a laurearsi, terminare il tirocinio da suo padre, iniziare a lavorare a tempo pieno in studio, acquistare casa, andare a vivere con Beatrice e organizzare il matrimonio.
Questi eventi portarono ansia, insonnia e, a volte, un respiro che faticava a compiersi. Erano crisi di panico che lo fecero spaventare.
Consultò un medico la cui diagnosi combaciava col 99.9% di ogni malessere della civiltà moderna: stress.
Gli prescrisse i fiori di Bach: una tenerissima ampollina di vetro dalla quale uscivano delle goccine oleose da assumere sotto la lingua ogni volta ne sentisse la necessità.
Non credette molto in quella terapia, ma si fidò.
Successivamente lesse il fitto bugiardino allegato e stampato su una deliziosa carta giallo paglia.
Le scritture gli confidarono che la pozione era composta da molti fiori che avrebbero sì aiutato a combattere ansia e stress, ma che non sarebbe stata sufficiente. Era molto importante non pensare alle situazioni che generavano ansia, avrebbe dovuto prendere le distanze da esse e dalle persone negative.
Fosse stato così facile.
La respirazione era fondamentale: ogni volta che ne sentiva il bisogno avrebbe dovuto chiudere gli occhi, inspirare profondamente ed espirare sorridendo. 
Si immaginò per un attimo la scena vista dall’esterno, si sentì un cretino e preferì non indagare oltre.
Le cause del suo stato d’animo erano evidenti: affrontarle singolarmente sarebbe stato molto complicato sebbene necessario.
Scelse di scaricare ogni energia residua rimasta a fine giornata andando in palestra: corsa, nuoto, provò persino lo spinning per quanto detestasse le attività di gruppo.
Per un po’ i malesseri lo lasciarono in pace e credette di poter tenerli a bada, ma sbagliava.
Durante il giorno vivevano nella penombra, ma non appena calava il sole e abbassava le difese, erano pronti a uscire dalle loro tane come predatori notturni.
Realizzò finalmente che la sua vita non aveva preso la direzione sperata. Ma quale sarebbe dovuta essere la direzione giusta?
Si sentiva la rana di Chomsky: quando era stato acceso il fuoco? Era troppo tardi per tentare un balzo?
Abituato da tutta la vita a quella pentola enorme e confortevole, ormai temeva ciò che avrebbe visto fuori. E se l’unica decisione importante della sua vita fosse stata sbagliata?

«Tutto a posto Dottore?»
La voce di Piero interruppe il pensiero di Michele che ritornò a galla come da una lunga immersione.
«Si Piero, tutto bene, penso di non aver firmato dei documenti».
«Vuole che la riaccompagni in ufficio a controllare?».
«No, ti ringrazio, possono attendere, raggiungi la tua famiglia».
Scese dall’auto, salì i quattro gradini di pietra che separavano il marciapiedi dal portone.
La mano destra stringeva con forza la maniglia della valigetta mentre l’indice sinistro si fermò a pochi millimetri dal citofono numero 3. Esitò nel premerlo; improvvisamente il portone si aprì.
Erano l’Avvocato Rizzoli e la moglie.
Si fecero gli auguri, dopodiché Michele entrò nel portone.
Raggiunse l’ascensore. Rimase immobile a fissare la luce rossa del pulsante. Si voltò, tornò sui suoi passi fino ad uscire dal palazzo.
Chiuse gli occhi.
Inspirò profondamente l’aria che sapeva di nebbia.
Espirò mimando un sorriso.
Si alzò il bavero del cappotto e decise di fare quei quattro passi a piedi che aveva rimandato, forse, da troppo tempo.

Racconto tratto da “Il primo passo”.

Riccardo Fano