La pioggia non bagna tutti

Il fumo della sigaretta sale lento lungo la parete della cucina fino al soffitto dove scompare inghiottito. Risalendolo controcorrente come a bordo di una leggera imbarcazione a remi lo troviamo lì, appoggiato con una mano al piano fuochi.
Si è appena versato il caffè nella solita tazzina bianca che ha selezionato tra molte, decretandola come perfetta a contenere quel nettare scuro, possedendo al tempo stesso una calibrata capienza, un manico che le conferisce una ottima maneggevolezza e una capacità innata a gestire la temperatura del sacro nettare. Con una certa attenzione, figlia della rilassatezza contemplativa che quel momento unico era solito concedergli, osserva attraverso la mezza finestra aperta una coppia di ragazzi sulle scale del palazzo di fronte. Si sofferma sui volumi di quegli esseri umani così simili per evoluzione, eppure così diversi in ogni millimetro visibile: lei è il doppio rispetto a lui, sta in piedi voltata di tre quarti, con capelli alle spalle color verde acqua e un vistoso drago tatuato sul braccio che le spunta dalla manica di una t-shirt rossa.
Lui, magro in una maglietta a righe verticali che lo rende ancora più scheletrico, si tocca nervosamente la folta chioma riccia mentre sembrerebbe tentare di farsi perdonare qualcosa che ha detto o fatto. Dalla distanza non coglie i particolari di tale discussione, ma il linguaggio non verbale ha nettamente definito chi sia il colpevole e chi la vittima. Dopo i primi promettenti minuti peró, la trama sembra non concedere sviluppi e l’attenzione vacilla col secondo sorso di caffè seguito da un’abbondante tiro di sigaretta. E qui il guizzo, la scintilla, la carta che spariglia: la mano giunonica di lei fa scattare uno schiaffo in piena faccia allo smilzo che perde istantaneamente l’equilibrio e barcolla vistosamente per un paio di secondi netti.
Il rimbombo della collisione è ancora nell’aria mentre lei sale la rampa di scale piangendo.
Il ragazzo invece dopo l’impatto tanto inaspettato, quanto trasformativo, sembra aver perso la memoria a breve termine, strizza gli occhi guardandosi attorno alla ricerca di piccoli indizi utili a ricostruire dove si trovi, quando sente una risata di scherno provenire dalla finestra del condominio di fronte.

Turchino Scolletta è un uomo al quale la vita ha sottratto occasioni a prescindere dal merito.
Lui, dal canto suo, se ne è accorto subito da bambino. Senza perdere tempo, senza pensare a quella che, a tutti gli effetti era una ingiustizia cosmica, al contrario dei suoi simili che sarebbero caduti in ginocchio puntando il dito accusatorio verso il cielo o la sorte meschina, semplicemente, con un rapido salto alle conclusioni, ha fatto per la prima volta ció che sarebbe stata poi la cifra stilistica del suo comportamento quotidiano: se ne è fottuto altamente.
Il nome Turchino, deriva dagli occhi azzurro anice ghiacciato che la madre vide come prima cosa, a contrasto della già folta chioma nero corvino che ebbe fin dalla nascita. Ora di quei capelli non rimangono che dei lunghi rivoli grigi ai lati destinati alla prosciugazione.
Il volto stretto e lungo va a corredo con un naso identico, che si conclude appena sopra una bocca che il destino, per evitare incomprensioni, ha voluto disegnare rivolta in basso, in una smorfia naturale tendente alla sconfitta. Fin dal primo giorno di scuola, nessun bambino perse occasione per ricordargli quanto la fisionomia, nel suo caso, fosse stata stronza.
Ma, di rimpetto, anziché scoraggiarsi, Scolletta reagiva con una forza ostinata e contraria, immagazzinando l’onta di qualunque insulto, non tralasciando nessuna risatina percepita alle spalle dopo il suo passaggio. Immagazzinó tutto e con ognuno di quei mattoni, non ci costruì una stanza nella quale seppellirsi e sparire, ma una corazza impenetrabile che lo avrebbe reso refrattario alle cattiverie delle persone. Ciò che deficitava nell’aspetto fisico, gli venne commutato in intelligenza e acume.
Capì ben presto che il suo aspetto esteriore, avrebbe potuto facilmente essere utilizzato per incutere timore e grazie alla sua intelligenza da roditore avrebbe tranquillamente vissuto bene in un certo mondo definito da molti sotterraneo.
L’essere nato e cresciuto in un quartiere popolare nel quale ognuno cercava di tirare a campare come poteva divenne una palestra perfetta nella quale perfezionare le tecniche di sopravvivenza e non ci mise molto a farsi un nome, lasciando che altri si sporcassero le mani al posto suo.
Trovò il suo spazio in quella zona grigia nella quale i contorni degli occupanti risulta un’attività complessa e incerta. Una nebbia fitta che protegge i mandanti, che rende i discorsi ovattati e li sfuma una volta pronunciati.
Ben presto comprese che a questo mondo la pioggia non bagna tutti. Quando dovette decidere da che parte stare, non esitó.

Raccoglie le poche cose che ha sul tavolino all’ingresso all’interno della solita busta gialla del supermercato che usa come ventiquattrore, si abbottona la giacca che lo fa sembrare ancora più magro di quanto già non sia, inforca gli occhiali da sole e si chiude la porta alle spalle.
Nessuno sa esattamente cosa faccia per vivere. Non lo sa nessuno proprio perché nessuno si è avvicinato così tanto a lui. Nessun amico, nessuna frequentazione sentimentale, nulla di tutto. Almeno sono queste le informazioni agli atti della magistratura che lo segue da anni come il più acceso tra i fan club. E se non sanno nulla nemmeno i tuoi fan, tocca credergli. Ma tutti, estimatori e detrattori lo conoscono, sanno che non apprezza l’invasione nella sua vita privata e che, per la sicurezza e la quiete, va bene così.
L’impressione che dà alla vista è di un monaco: nessun vizio, tranne le sigarette e il caffè. Gira sempre da solo e a piedi. È abitudinario e dalla vita semplice. Per un periodo qualcuno fece circolare l’informazione che avesse preso il posto vacante di un boss e, con lui, il suo tesoro milionario. Ma poi la voce sparì assieme alla persona che l’aveva messa in giro e tutto ripartì come niente fosse.
Ha la battuta sempre pronta; come un ratto, è rapido a sviare all’ultimo la ruota improvvisa pronta a schiacciarlo. Pare riesca ad annusare l’aria, anticipando di qualche secondo il temporale in arrivo, che sia di natura meteorologica o giudiziaria. Non esce mai dal quartiere che conosce bene. Dietro a delle lenti specchiate soppesa in pochi secondi l’anima che ha di fronte e ne comprende l’intenzione.

Al semaforo che separa i due marciapiedi, si mischia tra le persone in attesa della luce verde e la busta gialla da supermercato, all’interno di quel campionario umano, non stona nemmeno più.
Entra al bar sicuro e spavaldo, cantando a gran voce un classico estivo, non per pavoneggiarsi, bensì per avvisare chi è di servizio dall’altra parte dei microfoni installati di notte e monitora le attività, che è giunto il momento di affilare l’attenzione e registrare la conversazione.
Osserva velocemente la stanza e i presenti: solo una coppia di vecchi annoiati, seduti al tavolo in fondo al locale, dove la luce dalla strada illumina meglio la mano di briscola e, dietro il vetro smerigliato, un ragazzo dall’aria stanca che stona completamente con l’arredo. Resta diffidente il tempo necessario per raggiungere il bancone.
«Buongiorno Rocco, come procede questa splendida giornata!» trasformando una domanda in un’affermazione alla quale sarebbe stato difficile dare una risposta.
«Ciao Scolletta, tutto a posto, il solito?»
«Chiaramente mio caro» e lo dice sfilandosi gli occhiali da sole a goccia, si sistema con le mani gli ultimi lunghi capelli grigi rimasti ai lati della testa e conclude l’azione ritornando con lo sguardo sul ragazzo fuori posto. Un rapido ragionamento gli suggerisce di abbassare le difese, ma solo di un po’, quindi sceglie di ritenerlo innocuo e con un cenno della testa lo saluta.
«Non c’è niente di meglio di una bella Sambuca dopo il caffè»
«Però il caffè tu qui non lo prendi mai»
«E che c’entra Rocchino te l’ho spiegato mille volte, mica siete capaci voi baristi a fare il caffè. Quello, se permetti, me lo bevo a casa mia che l’ultima cosa che voglio è essere avvelenato. Alla mia età poi sarebbe un colpo basso. Lasciami vivere in santa pace quello che mi resta. E poi la tradizione è la tradizione: caffè, sigarettina e da Roccuccio a bere una bella Sambuca. Mai dimenticare le tradizioni, i giovani d’oggi si scordano tutto, caro mio»
E ingoia l’ultimo sorso.
«Beh, s’è fatto tardi e devo proseguire. Ciao Rocché, metti tutto sul mio conto»
«Segno, segno, ciao Scolletta»
Ovviamente entrambi sanno che quel conto non verrà mai saldato.

Le nuvole stavano tornando a coprire il cielo e minacciare di nuovo acqua sospinte da un vento che, cambiando di direzione, portava dalle campagne vicine un generoso e pungente odore di letame. Chiunque non fosse abituato si domanderebbe a questo punto, come sia possibile che possa accadere una cosa del genere in una metropoli moderna e tecnologica, che ha fatto della moda e della finanza la propria cifra di stile, riconosciuta nel mondo. E invece un monito giunge da non troppo lontano a ricordare che puoi metterti quanti strati di raffinato e costoso profumo vuoi, ma se sei nato merda, sempre merda resterai. Ed è una regola del gioco che Scolletta ha imparato presto e non ha mai provato a cambiare.
Entra al minimarket a fianco, riempie la busta gialla, accarezza un cane lasciato all’ingresso in attesa del padrone ed esce.
Cammina a passo deciso, ma tranquillo, come a godersi ogni istante: quell’eccitazione mista al desiderio del primo incontro. Raggiunge uno spesso portone di ferro. Preme a memoria un pulsante del citofono e guadagna la discesa che porta a un’autofficina al momento vuota.
Passa direttamente sul retro, quindi scende qualche gradino, attraversando un varco nel quale ci passa a malapena una persona. La scaletta di ferro è stretta e ripida, illuminata da una lampadina nuda lasciata penzolare da un filo. Il rumore metallico dei passi si mischia a quello dell’acqua che scroscia in tubi di plastica nascosti dentro muri portanti.
Raggiunge una stanza illuminata da un faro posizionato a terra, troppo piccola per contenere quattro persone.
Assieme a lui ci sono due tra i suoi fidati e, seduto su una sedia di plastica, un uomo imbavagliato, con gambe e piedi legati da cavi.
Senza dire nulla, uno dei due sfila il bavaglio.
«Arriviamo al dunque, tanto lo sappiamo entrambi perché sei qui e a me di stare in questo stanzino di merda non mi piace, perciò te lo chiedo una volta sola. Pensaci un po’, ma non troppo e dammi la risposta giusta, così la finiamo»
L’uomo tenta di mascherare la paura fissando Scolletta dritto negli occhi in attesa che un evento miracoloso lo porti via di lì.
«Turchino lo sai che non lo farei mai. Da quanto ci conosciamo io e te? Vent’anni? Almeno vent’anni. Ti pare che possa tradirti dopo tutto questo tempo?»
Scolletta rimane immobile, impassibile come i due golem ai lati della sedia. Le mani in tasca, il respiro lento, le palpebre sbattute a intervalli lunghi e regolari.
«Ed è questo che mi fa incazzare di più. Posso capire se uno cerca di fottermi dopo qualche mese, ma dopo ventitré anni… Ok, finiamola qui. Domanda! Cosa hai raccontato alla Polizia e quando è avvenuto l’incontro»
Prima che l’uomo tenti una risposta aggiunge «hai solo una possibilità, non sprecarla amico mio»
La fronte dell’uomo aggiunge sudore all’espressione drammatica e gli occhi si fanno sempre più colmi di lacrime che non riescono a traboccare. La bocca è socchiusa, ancora in attesa di un aiuto esterno, di una soluzione che provenga da fuori, perché in quel momento preciso sta realizzando che lì dentro non ne troverà che una risolutiva e terribile.
Scolletta estrae gli occhiali dal taschino della giacca e con un fazzoletto di stoffa inganna l’attesa pulendo le lenti e controllando controluce che non rimangano aloni fastidiosi, poi soddisfatto riporta ogni cosa al proprio luogo di origine.
«Allora?»
L’uomo prova a giocare la carta della disperazione.
«Non ho parlato con la Polizia. Sì è vero, sono venuti a casa mia due settimane fa. Mi hanno fatto delle domande su di te, ma non ho parlato. Hanno minacciato di portarmi in galera e altre cose, ma gli ho detto di andare a fare in culo che non sono un infame, che preferisco mille volte la galera. E se ne sono andati»
«Tutto qui?»
«Te lo giuro! Sono tornati una settimana dopo, mi hanno seguito dalla palestra. Era quando sono arrivato in ritardo all’appuntamento. Quando ho visto la macchina che mi seguiva, non sapevo cosa fare e sono tornato a casa. Nel parcheggio sono saliti sulla mia macchina, mi hanno fatto delle domande, mi hanno minacciato, ma non ho detto nulla, devi credermi»
Si rivolge ai due golem con un sorriso leggero e stranamente compiaciuto.
«Beh, ragazzi se dice che dobbiamo credergli, chi siamo noi per pensare il contrario»
«Mi devi credere! Tu per me sei sempre stato come un fratello. Non ti potrei mai fregare. Lasciami andare e troviamo un modo per fregare quegli stronzi come abbiamo sempre fatto»
Il sorriso sparisce di colpo.
«Io cosa sarei per te? Un fratello?»
Si rivolge a uno dei due golem e con un gesto si fa consegnare qualcosa. L’uomo assiste solo alla parte che avviene dentro il suo campo visivo e non capisce cosa sia il piccolo oggetto che passa tra le mani.
«Sai cos’è questa?»
Tiene tra il pollice e l’indice una scatoletta di plastica. Complice la stanchezza, la confusione e il punto di vista controluce, l’uomo non riesce ancora a realizzare cosa sia.
Non ricevendo risposta, Scolletta prosegue.
«In ventitré anni, non ti sei mai presentato in ritardo a un incontro con me. Sai quanto sia diffidente con tutti. E quando è capitato tre mesi fa, mi sono insospettito. Così ti ho fatto mettere dei microfoni in casa, in macchina e fatto pedinare. Stavo per credere di aver perso il mio istinto, quando due settimane fa ecco svelato il trucco. Hai ragione, la polizia è salita sulla tua macchina, ma non è vero che non hai cantato. Ti sei accordato con loro per sputtanarmi, in cambio di protezione e altre cazzate che non si avvereranno mai. È tutto qui, in questa cassettina»
L’uomo vorrebbe replicare all’evidenza, ma non ne ha il tempo.
Scolletta ripone la cassetta nella tasca della giacca, poi se la sfila e la appende a un gancio, mentre di spalle al trio sentenzia
«Tenetelo fermo»
Perfettamente coordinati, uno dei due gorilla immobilizza l’uomo bloccandogli collo e spalle, mentre l’altro con una mano gli tappa il naso e con l’altra incastra nella bocca senza troppi convenevoli un imbuto di acciaio che stride a contatto con i denti.
Scolletta apre il sacchetto e ne estrae una bottiglia di candeggina pura.
Si avvicina, la stappa e senza che un petalo di rimorso lo sfiori svuota il contenuto all’interno dell’imbuto e lungo la gola dell’uomo che si dimena come un pesce senz’aria incastrato nella rete. La percezione del tempo è soggettiva così come la durata di questo frammento: dieci secondi, due settimane, ventitré anni.
«Rimettetegli il bavaglio»
Lascia cadere a terra il contenitore ormai vuoto e osserva come uno spettatore pagante gli ultimi attimi di vita dell’uomo.
Quando il corpo è ormai immobile, senza nessun coinvolgimento, si volta, indossa nuovamente la giacca e se ne va.
Il silenzio è calato nella stanza.

Riccardo Fano