Costeggia il bordo del marciapiedi alla ricerca del numero civico che segnerà il traguardo della sua spedizione.
Osserva la zona. Non potrebbe essere definita elegante; gli agenti immobiliari incaricati di vendere uno degli appartamenti incastrati in condomini figli del boom economico e dell’abuso edilizio la definirebbero popolare e ben animata.
Passa in rassegna le tavolette con i numeri progressivi, come se scandissero l’estrazione di una lotteria. Il suo numero fortunato recita il 26. Ha ancora un pezzo di strada da fare.
Il sole picchia pesante sul suo cappello mentre scorre a passo tranquillo di fronte a un minimarket di probabile conduzione familiare, di quelli con le casse d’acqua impilate fuori, che hanno carrelli di dimensioni adatte a bambini, o tutt’al più a fantini e il proprietario che diventa, secondo necessità, salumiere, panettiere e cassiere.
L’immancabile Compro Oro con la vetrina coperta da una immensa decalcomania gialla e nera che urla ai passanti la propria presenza in caso di necessità, quasi a suggerire che tanto prima o poi anche tu passerai a trovarmi e garantendo l’assoluta impenetrabilità a chiunque volesse spiare da fuori.
E siamo al 23.
Una officina con la serranda abbassata a metà, dato l’orario, che svela un uomo di bassa statura, ma con il quale non è consigliabile venire alle mani, accomodato su una seggiola pieghevole mentre si sostiene affrontando, a occhio, tre etti di pasta al sugo.
La tuta è abbassata sul torace, vuoi per risparmiarla da eventuali schizzi di salsa – si sa, che lo spaghetto è infame – vuoi per godere della piacevole corrente d’aria che unisce l’ingresso alla porta del retro spalancata sul cortile interno.
Giunge al 26.
Aiutato dall’estremità dell’indice, cerca il cognome sulla pulsantiera dei citofoni, notandolo come l’unico stampato e installato al di sotto del tasto di plastica trasparente, tra le decine di etichette adesive compilate a mano in modo spesso incomprensibile.
La voce femminile lo invita a salire al quarto piano.
L’ascensore è ancora uno dei modelli con la fessura per il gettone.
Preme il numero quattro e osserva in giro: scritte in varie lingue dichiarano amore eterno a donne dai nomi esotici; una svastica incisa al contrario e con un tratto traballante rivela il gesto di un nostalgico dell’ultima ora o semplicemente di un idiota.
Sulla porta, la parte non strappata della figurina di un calciatore del quale non si legge il nome, né si vede il volto; unico indizio il logo col pipistrello del Valencia F.C.
E come sia potuta finire nell’ascensore di quel condominio e di quella precisa città, resterà per sempre un mistero.
Giunto al piano, l’ascensore compie il balzo leggero tipico del fine corsa.
Il pianerottolo ha tre porte, ma solo una è per metà aperta.
Appena due passi oltre la soglia e la stessa voce, ma meno metallica, proviene dal fondo del corridoio.
Mi scusi, non avevo badato all’orario, si accomodi pure, arrivo subito.
Accompagna dietro sé la porta e con l’imbarazzo di chi invade spazi altrui, entra nella prima stanza disponibile, la cucina, preferendo non proseguire e decidendo di sedersi accanto alla finestra aperta alla ricerca di aria fresca.
Con gli occhi chiusi puntati verso l’alto, cerca di smontare l’insieme di odori che il suo naso incontra.
Sapone di marsiglia, del pesce fritto, ma non di recente, un tubo di scarico – forse di una moto – detersivo per pavimenti alla lavanda, o magari mughetto, è sempre diffic…
Mi scusi se l’ho fatta attendere, posso offrirle qualcosa?
Non si preoccupi, sto bene così, la ringrazio.
Osserva la donna con calma e attenzione, cercando di prevederne carattere e fragilità, tutti elementi che, di solito, i suoi clienti tendono a nascondere.
Le spiace se lo bevo io, il caffè?
Ci mancherebbe.
La ringrazio, intanto, se lo desidera, posso iniziare a spiegarle il motivo per cui l’ho cercata.
Lo Sciamano conferma con un leggero cenno della testa, quindi si sistema più comodamente sulla sedia azzurra in formica che comunque non glielo permetterà per l’intero incontro.
Mi ha dato il suo contatto una mia amica, Marisa, Conforti… l’ha aiutata tempo fa e sebbene fossi dubbiosa alla fine mi sono convinta.
So che lei non ha pregiudizi e non fa troppe domande.
Tendo a fare quelle che ritengo necessarie.
Esatto. Infatti…
Non so da dove iniziare, mi scusi, ma non ho mai raccontato questa cosa a nessuno, nemmeno Marisa la conosce tutta.
Si prenda il tempo necessario, inizi da un punto e vediamo che succede.
Va bene…dunque…si tratta di Alfio, mio marito…ex marito veramente. Quell’animale.
Allora, quando lo conobbi era perfetto, mi ha corteggiata per settimane…se penso che poi.
Scusi se la interrompo, ma credo che il caffè…
Il cosa? Sì giusto, che sbadata.
La donna si volta come se si muovesse in uno spazio che non conosce, spegne il fuoco da sotto la caffettiera, dimenticando di versarne il contenuto e si siede.
Dicevo. Alfio, mio marito.
Ex marito.
I primi mesi era tutto perfetto; mi passava a prendere quando uscivo dall’ufficio; sa io lavoravo per l’ufficio paghe di una grossa azienda, nulla di difficile sia chiaro, ma era un lavoro tranquillo e soprattutto mi permetteva di essere indipendente.
Arrivava di sorpresa e mi portava fuori a cena, oppure se era venerdì, andavamo via per il fine settimana, sempre accompagnato da un mazzo di fiori o un regalo.
Devo ammettere che all’inizio mi sentivo in imbarazzo, nessuno aveva mai avuto così tante attenzioni per me.
Sicuro di non gradire nulla? Dell’acqua, una bibita magari.
No, grazie mille, prosegua pure.
In pochi mesi riuscì a farmi perdere completamente la testa. Mi convinse a licenziarmi e andare a vivere assieme. Ci sposammo subito.
Furono tre anni bellissimi. Alfio è rappresentante di macchine per la stampa di etichette autoadesive, tipo quelle che si trovano sulle bottiglie del vino e spesso era via. Per me la sua assenza era normale; badavo alla casa aspettando il suo ritorno e anche se quella condizione in certi momenti mi andava stretta, pensavo alla fortuna che avevo avuto e non potevo lamentarmi.
Un pomeriggio però ricevetti una telefonata strana. Quando risposi dall’altro capo non sentii nessuna voce, ma sapevo che c’era qualcuno in linea.
Credevo avessero sbagliato numero e non diedi peso alla cosa. Ma l’episodio si ripeté altre volte quella settimana e iniziai a preoccuparmi.
Ovviamente ne parlai ad Alfio, che mi tranquillizzò e stranamente, dopo quel giorno, le telefonate cessarono per qualche tempo. Fino all’arrivo di questa.
Lucia si volta verso un pensile posto sopra la piccola Mivar a colori, apre l’anta e tra i barattoli di conserve e di sale grosso estrae una busta che appoggia sul tavolo.
Lo Sciamano la osserva per qualche secondo intuendone il contenuto, poi torna a guardare la donna.
Le risparmio la lettura.
È la lettera di una donna che mi raccontava non solo di avere una storia con mio marito, ma anche un figlio. Una famiglia vera e propria. Mi diceva che non si fidava di lui, così iniziò a seguirlo quando usciva di casa e scoprì che esistevano altre donne, compresa me, alle quali aveva deciso di scrivere e spedire la stessa lettera. Mi ha scritto che se avessi voluto sarebbe stata disposta a incontrarmi.
Inizialmente non le credetti. Come facevo, come era possibile. Poi il dubbio iniziò a farsi largo nella testa e alla fine decisi di farlo.
Preferirei non scendere nei dettagli, non riuscirei.
Ho chiesto di incontrarla perché ciò che ha fatto a me, mi ha reso una persona annientata, sia psicologicamente che fisicamente.
Ho provato a riprendere in mano la mia vita, ma alcuni pezzi so che non li ritroverò più.
Il tradimento e il male fatto a tutte queste donne non può essere circoscritto a una denuncia.
Vede, io ero una persona indipendente, mi piaceva esserlo. Avevo avuto sempre storie con uomini che non volevano sentirsi legati a me. Cercavo questo. Io non volevo un matrimonio, una casa a cui badare, rinunciare a tutto questo.
Poi è arrivato lui, con i suoi giochi di prestigio e io come una fessa ci sono cascata.
E me lo sono meritato.
Ma ora non posso più recuperare nulla. Ho perso tutto. Ho perso me stessa.
C’è solo una soluzione.
Lo Sciamano aggiusta la sua posizione sulla sedia, come a prepararsi a un impatto imminente.
Esattamente, Lucia, cosa mi sta chiedendo?
Di aiutarmi a sbarazzarmi di lui. Di fargliela pagare come merita. Una volta per tutte.
Nella stanza cala un silenzio sinistro. Anche la temperatura sembra essersi abbassata.
Silenzio che sarebbe durato minuti, se all’improvviso, un uccello disorientato da un riflesso, non si fosse schiantato contro il vetro della seconda finestra.
Le persone che conoscono la sua storia si potrebbero contare sulle dita di una mano.
Il tempo e lo stile di vita hanno tolto gran parte di quelle dita.
Si dice che sia nato nella carrozza a cavalli nel circo della sua famiglia.
Che sua madre fosse in grado di leggere le carte, predire il futuro e, all’occorrenza, giocare con la mente delle persone.
Che suo padre fosse il protagonista del numero principale dello spettacolo e che, alla sua nascita, si stesse esibendo. In piedi sulla sella di una moto che percorreva il perimetro della pista, mentre reggeva sulle spalle una lunga scala a pioli sulla quale Bobo, la scimmia più elegante della terra, compiva numeri di giocoleria indossando uno dei suoi impeccabili, piccoli frac.
Si dice che una volta compreso che la vita circense non facesse per lui, si mise in viaggio.
Percorse gran parte del mondo, facendo i lavori più strani e pericolosi: cacciatore di frodo, baleniere, autista di un oligarca del petrolio, tra gli altri.
Fino a quando, per ragioni altrettanto misteriose, fu costretto a sparire per un lungo periodo.
Ricomparì, anni dopo, in America Latina, con uno zaino in spalla mentre cercava di attraversare a piedi il confine tra Cile e Perù.
Stava prendendo fiato nel centro di una piccola piazza conservata benissimo, attendendo che il destino gli suggerisse cosa fare e lottando con una forte fitta allo stomaco che non lo abbandonava da settimane.
La sua attenzione venne catturata da un indigeno seduto a terra, appoggiato alla parete, a pochi passi dall’ingresso di un ristorante per turisti.
Un enorme cappello con una piuma gli copriva il volto, ma non i lunghi capelli nero inferno, una maglietta che aveva almeno il doppio dei suoi anni, un paio di jeans consumati e i piedi scalzi.
La sua attività principale sembrava essere la produzione di piccoli gioielli che appoggiava a terra di fronte a lui e che vendeva a chiunque avesse voglia di acquistarne uno.
Ogni tanto si arrestava improvvisamente, come se avesse catturato al volo un pensiero, estraeva dalla borsa un flauto inciso a mano e provava a tradurlo in melodia.
Poi riprendeva.
Ogni movimento era eseguito in funzione di una precisa necessità. Come se il concetto di tempo non lo avesse mai raggiunto.
I due riuscirono a scambiarsi poche parole e molti gesti, ma bastò a rompere il ghiaccio.
Gli disse di chiamarsi Huàscar, gli chiese da quanto tempo avesse quel dolore e che lui poteva aiutarlo.
Lo Sciamano non capì come fosse riuscito a intuirlo, ma dopo lo stupore iniziale tentò una risposta e accettò.
Lo seguì verso l’unica direzione che gestiva l’ingresso e l’uscita dal paese, costeggiarono la strada per qualche chilometro, poi virarono verso la boscaglia, prima rigogliosa, poi sempre più fitta e impenetrabile, se non fosse stato per un sentiero abilmente ricavato tra la vegetazione.
Quando raggiunsero la destinazione il sole era già calato e i versi di molti uccelli notturni avevano coperto il rumore dei passi.
Al centro di una radura spuntava la piccola baita in legno, dimora di Huàscar; dall’esterno sembrava decisamente poco accogliente, ma una volta varcato l’ingresso era decisamente più confortevole, sebbene restasse poco accogliente.
Il padrone di casa mise immediatamente a scaldare sulla stufa a legna un pentolone di acqua.
Si accomodarono, quindi senza perdere tempo, prese un recipiente in terracotta che appoggiò su un tavolo traballante, si voltò verso un mobile con strani decori incisi a mano, aprì un cassetto dal quale estrasse una scatola.
I divisori all’interno separavano foglie essiccate, fiori di varie dimensioni e colori, alcuni frammenti di un qualche cosa che sembrava pietra, alcune radici e delle minuscole zampe di un animale che poteva essere stato una lucertola.
Intuì cosa gli stesse per accadere.
Quando versò l’acqua incandescente nel recipiente, si sorprese nel non vedere sciogliersi la terracotta a causa della temperatura. Huàscar avvicinò la mano ai vari divisori e lui pregò che le dita finissero ovunque, tranne che nello spazio destinato alle zampe di lucertola.
Per un secondo l’indio ne afferrò una manciata; si guardarono, poi rise dicendo qualcosa che sembrava come uno scherzo, le lasciò e prese alcune foglie di varie dimensioni e forme, le strinse nel palmo e aiutandosi con le dita dell’altra mano le sbriciolò prima di aggiungerle all’acqua.
Attese quindi qualche minuto, fece scivolare la tazza verso di lui, mimò il gesto del bere, seguito a quello della mano che ruota in senso circolare all’altezza dello stomaco e poi del pollice alzato.
Lo Sciamano, colto da tanto impegno nel comunicargli la procedura, non si sentì di rifiutare.
Il primo sorso ebbe il sapore della ruggine. Il secondo della terra dopo un violento temporale estivo. Ma fu col terzo che sembrava piscio di gatto che realizzò non fosse stata poi una così buona idea accettare l’offerta.
Pochi secondi e un forte calore iniziò ad occupare abusivamente il ventre, poi una fitta allo stomaco, simile a una pugnalata lo fece accartocciare come una delle foglie nella scatola fino a farlo cadere a terra. Iniziò a sudare e a gridare a tal punto da perdere i sensi.
Riaprì gli occhi sdraiato su un letto dalla base rigida.
Non ricordava come ci fosse finito, bensì ogni frammento che aveva preceduto quell’attimo. Cercò di sollevarsi con cautela, come dopo un intervento chirurgico, intuendo che ogni gesto compiuto con la massima attenzione era inutile: non avvertiva nessun dolore, compresa la fitta allo stomaco, sparita senza lasciar traccia se non nei ricordi.
Libero da ogni peso, si rilassò osservando meglio la baita, ora illuminata da un piacevole sole mattutino. Era solo. E credette di esserlo per chilometri.
Uscì in cerca di Huàscar, gettando gli occhi il più lontano possibile, ma che, al loro ritorno, non catturarono il padrone di casa, e ora, anche suo salvatore il quale rientrò con delle provviste, per nulla sorpreso di trovarlo in perfetta forma.
Lo Sciamano da quel momento scoprì un mondo incredibile e volle a tutti i costi farne parte.
Chiese aiuto a Huàscar che contento di tale interesse lo portò con sé a Iquitos, un’isola nascosta dalla foresta amazzonica, irraggiungibile via terra.
Entrò in contatto con la figura del Curandero. Scoprì che oltre a curare il corpo, occorre intervenire anche sulla mente. Che il curandero non è un mago o uno stregone; conosce le leggi della madre terra, Pachamama e le applica ai suoi simili.
Si dice che sia rimasto in quel luogo per molto tempo, dismettendo le abitudini che lo avevano accompagnato per decenni, la maggior parte delle convinzioni che possedeva e, con loro, anche il nome di battesimo.
Continuò il viaggio in altri luoghi del pianeta, fino alla terra che gli aveva prestato un contenitore dentro al quale muoversi e vivere, ma ora era il contenuto ad essere completamente differente.
Si ricorda ogni persona con cui entrò in contatto, anche quando l’aiuto non bastò a risolvere i problemi.
Una delle prime fu Maria; aveva appena perso Manuel, l’unico figlio maschio al quale non aveva retto il cuore.
Fu il marito Augusto a presentarsi da lui una mattina.
Lo Sciamano arrivò in quel piccolo paese quasi per caso: la corriera aveva dovuto compiere una deviazione per un improvviso intervento alla strada principale e quando si fermò alla stazione dei pullman in attesa di nuovi passeggeri, decise di prendere i pochi bagagli che possedeva e scese come attratto da qualcosa.
Maria fu tra le poche a cui si affezionò. Quando andò a trovarla a casa con il rimedio necessario ad alleggerirla almeno un po’ dal peso che la opprimeva, si trovò come di fronte a un involucro. Era convinto che se le avessero spalancato il torace, al suo interno avrebbero trovato nient’altro che uno spazio vuoto.
Nel mondo degli insetti sarebbe una Exuvia.
Capita di trovare sui tronchi degli alberi o a terra, come fossili, l’esoscheletro o il carapace del proprietario il quale, nel frattempo, se ne è andato.
Come il contenitore di un sé che, semplicemente, ha smesso di esistere. Una istantanea perenne di ciò che era fino a un attimo prima e che da ora non è più.
Come Maria ne conobbe tanti. Militari rientrati da missioni all’estero e incapaci a inserirsi nei ritmi quotidiani; chirurghi che non reggevano la pressione del loro mestiere e crollavano.
Continuò a dare una mano un giorno alla volta, chiedendo in cambio vitto e alloggio quando i suoi pazienti non erano in grado di pagare. Poi si rimetteva in viaggio non appena capiva che il suo compito in quel luogo era terminato.
Per giorni, mesi, anni.
In quella cucina si stava compiendo un enorme fraintendimento travestito da richiesta di aiuto.
Lo Sciamano spostò lo sguardo per qualche secondo verso un punto indefinito, poi lo riavvolse come una lenza da pesca fino a inquadrare la piuma infilata nel suo cappello.
Lucia, credo a questo punto di essere la persona sbagliata nel posto sbagliato.
Non capisco…io credevo sarebbe stato in grado di aiutarmi.
Vede, Lucia, io per essere in grado, volendo, lo sarei. Solo che il mio impegno è per curare le persone, per migliorare la loro vita. Non per farla cessare.
Ma migliorerebbe la mia, di vita! Non ha sentito cosa le ho appena raccontato, che razza di bastardo mi ha ridotta così?! Uno così non merita una denuncia, non merita la galera. Uno così non può passarla liscia…deve morire uno così!
Lucia, credo sia ora che
Crede?! Lui crede! Cosa crede!
Pensavo fossi una persona seria tu. Che riuscissi a risolvere il mio problema, invece voi uomini siete tutti uguali. Sempre a difendervi a vicenda anche se non vi conoscete. Dovevo dare retta a mia madre e dirlo subito a mio fratello. Lui avrebbe trovato sicuramente una soluzione, anziché perdere tempo con uno smidollato come questo qui.
Lo Sciamano pinza con tre dita la cima del cappello, si alza dalla sedia che gli aveva anticipato fin dall’inizio sarebbe stato un incontro scomodo, si aggiusta la giacca ormai troppo stropicciata per qualunque intervento che non fosse di una tintoria e guadagna l’uscita tra le urla della donna, trasformata in vendicatrice.
Decide di non attendere l’arrivo dell’ascensore, ma di guadagnare le scale, mentre l’eco degli insulti si fanno sempre più distanti dopo ogni piano lasciatosi alle spalle.
Una volta raggiunto il marciapiedi, si ferma per un attimo a rassettare le emozioni, punta il naso al cielo, socchiude gli occhi, inspira profondamente una nuova manciata di odori vari e, espirando con la bocca, giura a se stesso che quella sarebbe stata l’ultima volta.