L’ultima notte

Non riesco a prendere sonno. Da una decina di giorni è sempre peggio.
Vorrei scendere dal letto a controllare l’ora, ma rischierei di svegliare Weah che dorme beato nella branda sotto alla mia. Ho sempre invidiato le persone che si addormentano ovunque e subito. Sembrano attivate da un interruttore: lo giri su OFF e cadono in un riposo profondo.
C’ho sempre impiegato tantissimo tempo. Dopo i primi minuti di rilassamento, la testa riprende a pensare, riflettere, viaggiare. Soprattutto da quando sono qui dentro. Mi sono abituato a quasi tutto, ma a questo materasso proprio no.

Ogni volta che cambio posizione sento sempre quella stessa molla che mi punge la schiena, come la punta del coltello di un balordo di bassa lega che vigliaccamente ti sorprende alle spalle per derubarti.
Il carcere è un mondo a parte; quando sei dentro all’inizio credi che la motivazione sia di proteggere chi è fuori da gente come te. Più passa il tempo, più ti trasformi e inizi tu a temere il giorno in cui dovrai incontrare di nuovo il mondo lasciato all’esterno.
Non riesci più a capire chi siano i buoni e chi i cattivi perché qui esistono regole e leggi a parte e ci sono codici che vivono solo tra queste pareti, dietro a queste sbarre.
Occhiate che riassumono discorsi. Per sopravvivere devi essere molto attento, saper ascoltare tutto senza accorgerti di nulla.
Guardare solo quando non sei guardato.
Parlare senza che qualcuno possa ascoltarti.
E tutto questo devi impararlo bene e impararlo velocemente.

Ora mi trovo a dormire per l’ultima volta in questa cella.
Domani tornerò a essere un uomo libero, per quello che possa valere questa parola. Ho paura di ciò che troverò là fuori. Sono trascorsi molti anni e molte cose saranno cambiate. Io per primo.
Weah sarà il mio ultimo compagno di cella e sono contento che questi mesi li abbia passati in sua compagnia. È un bravo ragazzo e non meriterebbe di stare qui dentro.

Mi ha sempre fatto sorridere il pensiero che tutti quelli finiti in carcere credano di esserci entrati per errore. Io ci sono finito perché ho ucciso una persona.
Lui invece per fame.
Due reati diversi, ma le pagine su cui è stata scritta la legge ha tante sfumature e troppe interpretazioni. E ci deve essere senz’altro un errore se due persone come me e Weah si siano incontrate nella stessa cella a scontare una pena così diversa.

Non so nemmeno come si chiami per davvero.
Lui per primo si è presentato a tutti come Weah, in onore dell’attaccante del Milan di Zaccheroni. L’unica cosa che hanno in comune è il paese d’origine e il colore della pelle.

Per il resto potrei avere più somiglianze io.
Credevo fosse per via delle doti calcistiche, invece l’ho visto esibirsi in una partitella durante l’ora d’aria in un pomeriggio di primavera: se riesci ad immaginarti un elefante che indossa delle ciabatte, hai l’idea del tocco vellutato dei suoi piedi quando accarezzano un pallone. Decisamente non la sua dote più a fuoco.
Ne ha ben altre e, nel corso dei mesi ho avuto modo di apprezzarle e considerarle molto più utili in un ambiente come questo.

Quando c’è il cambio del compagno di cella è sempre un momento complicato: in carcere non si possono avere abitudini autonome.
Non puoi scegliere quando mangiare, quando svegliarti, quando dormire. È tutto deciso da altri e devi adeguarti. Il compagno di cella è la cosa più importante: in uno spazio grande quanto un ripostiglio ti tocca convivere con uno sconosciuto che non è lì per caso. Speri ti capiti il meno peggio, ma non sempre accade. A me è capitato solo con Weah.
Prima di lui c’è stato per un brevissimo tempo Amir, un tunisino enorme che non parlava mai, ma che alla prima occhiata che gli davi, se era in una giornata negativa – in pratica sempre – ti aggrediva con una furia cieca.
Con me è successo il primo giorno: è entrato, l’ho guardato presentandomi, lui mi ha preso per il collo, scaraventandomi contro il muro. Se non fosse stato per le guardie che erano ancora nella cella probabilmente sarei morto. Si è fatto due settimane di isolamento. Quando l’ho rivisto ho fatto finta non esistesse e così siamo stati per sei mesi. Nessuno osava dargli fastidio. Ma nel mondo c’è sempre qualcuno peggiore di te. E così una mattina, nella stanza delle docce, è entrato in verticale ed è uscito in orizzontale.

Poi è stato il turno di Mamadou, un ragazzo camerunense di 21 anni, arrivato in Italia assieme a centinaia di altri come lui. Per un po’ ha provato a vivere come ambulante, ha cercato anche un lavoro fisso, ma non riuscendoci, anziché rimanere in questo cono d’ombra ha preferito accettarne uno da autista che gli faceva fruttare abbastanza soldi per affittare addirittura un monolocale in periferia. Una bettola con una stanza, ma almeno ci viveva da solo ed era sempre meglio che dormire alla stazione o condividere un’altra bettola come quella, ma con quattro persone.

Il lavoro consisteva nel farsi trovare in un parcheggio un giorno preciso ad un orario preciso. Salire su un’auto che gli era stata comunicata poche ore prima, prendere le chiavi nascoste dietro una ruota e dirigersi in un posto preciso. Una volta a destinazione, chiudere la macchina, rimettere le chiavi dietro la stessa ruota e andarsene. Il ritorno era affare suo. Nessuno gli aveva spiegato il motivo di quei viaggi e per lui era ok così.

È andato avanti in quel modo per quasi un anno, fino a quando la polizia non lo ha fermato per un normale controllo di routine scoprendo che Mamadou non aveva la patente, che l’auto era stata rubata e che nel baule, al posto della ruota di scorta c’era un borsone nero con 20 panetti di hashish da 2 chili l’uno. La cosa bella è che la prima volta che me lo ha raccontato lo ha fatto come se non fosse capitato a lui, come fosse una storia letta sul giornale. In alcuni momenti rideva pure.

Ho pensato gli mancasse un martedì, invece era proprio il suo carattere. Apparteneva alla tribù dei Bamun e secondo la loro tradizione i movimenti dei ragni nascondono un misterioso segreto attraverso il quale si può leggere il futuro, proprio o altrui. Era fissato con l’aracnomanzia. Ora so che si chiama così perché mi sono informato, nemmeno lui conosceva il termine esatto, ma non gli interessava. 
Aveva conosciuto il suo destino da piccolo e quindi non aveva paura del futuro, perché nonostante avesse superato molti ostacoli era un prescelto. Non si è mai capito per fare cosa, ma quando lo diceva i suoi occhi si riempivano di speranza e orgoglio e sembrava gli bastasse così.

Durante l’ora d’aria, nelle giornate di sole, si allontanava dal resto del gruppo, si sedeva a terra, alzava la faccia per ricevere più luce possibile sorridendo ad occhi chiusi.
Non ho mai capito cosa c’entrasse uno così qui dentro. Ma evidentemente doveva essere davvero un prescelto perché nessuno gli ha mai torto un capello, stava simpatico alla maggior parte dei detenuti.
Agli altri semplicemente non fregava nulla di lui.
Quando è uscito ci siamo salutati senza prometterci nulla. Avrei voluto rivederlo una volta fuori, ma né io né lui sapevamo che non avremmo potuto mantenere la promessa. È rimasta la speranza e l’impegno nel farlo capitare, accordo sigillato da una stretta di mano e un abbraccio.

La libertà è come un portafoglio.

La prima volta che sentii questa frase ero in fila alla mensa, indeciso su cosa facesse meno schifo tra le scelte del pranzo, quando le parole mi entrarono all’improvviso nell’orecchio destro, senza chiedere.
Ricordo che mi voltai ma non riuscii a vedere bene in faccia chi avesse pronunciato una frase così strana, ma che mi incuriosì immediatamente.
La seconda volta che la sentii ero in cortile, durante l’ora d’aria quotidiana.

Qui fui più veloce e scoprii l’autore: quando vestiva i panni dell’uomo libero all’anagrafe era Vincenzo Romano, qui invece tutti lo chiamavano ‘O Professore. Insegnava Lettere e Filosofia in un liceo classico di Aversa e diceva di essere anche molto bravo, nonostante possedesse un carattere fumantino che gli costò qualche sospensione dopo diversi scontri con la direzione e il provveditorato, ma filò tutto liscio fino al giorno in cui arrivò tra noi in veste di pluriomicida. Giravano varie storie a riguardo, ma le più accreditate erano la sua, nella quale rinvenne il corpo della moglie in un lago di sangue.
Preso dal panico le si avvicinó per accertarsi che respirasse ancora, spargendo tracce ovunque, riuscendo a malapena a chiamare la polizia.
La versione di tutti gli altri, giudice compreso, aggiungeva qualche dettaglio in più.
Perché ciò che ‘O Professore continuava a omettere era che accanto alla moglie – per la cronaca era stata trovata seminuda – la polizia riconobbe il cadavere di Guido Merli, l’edicolante di zona – che, sempre per la cronaca, era completamente nudo -.
Non ci volle molto tempo per raccogliere le prove che lo incastrarono.
Alcuni testimoni dichiararono di aver notato il Prof. per alcuni giorni uscire dal portone del palazzo dove viveva, andare al bar accanto, prendere il solito caffè e attraversare la strada per osservare meglio i presunti sospetti di tradimento da parte della moglie.
Sospetti che gli diedero ragione quando vide per tre mercoledì di seguito, alle 9 e 35 esatte, proprio Guido Merli entrare nel portone, salire le scale e apparire per un breve attimo dietro le tende del salotto.
Preso dall’ira, Romano rientrò in casa cercando di fare il minimo rumore possibile così da cogliere i due amanti sul fatto.
Una volta sorpresi a letto, nudi, lasciò che la rabbia scorresse libera e scatenò la sua vendetta.
Sparò a entrambi, con la pistola regolarmente detenuta, ferendoli – qui il giudice gli diede la premeditazione -. Non contento terminò ciò che aveva iniziato, andando a recuperare in cucina un coltello da macellaio. Il resto occupó per settimane la sezione cronaca nera dei principali quotidiani che descrissero tutto nei minimi dettagli. E pensare che a vederlo così sembrava anche una persona molto riflessiva, mi ricordava lo zio Paulie nella saga di Rocky. Però più verso gli ultimi Rocky.

Le giornate si concentravano sul possibile significato di quella frase. Perché la libertà è come un portafoglio? Detta così sembra la frase pronunciata da uno che ha perso la testa – e qui dentro farebbe a gara con altri come lui, se non addirittura peggio – però il pensiero tornava a trovarmi appena chiudevo gli occhi ogni sera, prima di addormentarmi. Usai ogni pretesto per entrare in confidenza col Prof, prima scroccandogli una sigaretta, poi parlando del tempo, ma nulla. Non si presentava mai l’occasione giusta.

I giorni passavano, Vincenzo era arrivato a fine pena e il tempo a disposizione terminato. Misi da parte i convenevoli, mi diressi da lui e arrivai al punto facendogli la domanda diretta. Da quando sono qui dentro sei stata la terza persona che mi ha chiesto il significato di questa frase. Tutti vogliono sapere se sono colpevole, se ho ammazzato mia moglie, i dettagli macabri, tutte cose ormai inutili.

Perché la libertà è come un portafoglio, dici? Prese tempo accendendosi una sigaretta e con gesti teatrali socchiuse leggermente gli occhi per difendersi dal fumo e si sedette sul bordo di una panchina in pietra del cortile. Cercava di aumentare la suspance e il peso della rivelazione, poi finalmente proseguì.

Segui il mio ragionamento.
Nel portafoglio ci mettiamo i soldi e i documenti, vero? Ma non solo.
Ci possiamo mettere anche le fotografie della nostra famiglia, dei figli, magari dei nipoti. Ci conserviamo anche contatti importanti, numeri di telefono, biglietti a cui siamo legati. Non sappiamo se ci serviranno, ma sappiamo che lì saranno al sicuro e che li andremo a cercare quando sarà il momento.
Poi un giorno, improvvisamente, capita che ti sottraggono il portafoglio. Bada bene che non ho usato il verbo perdere, ma bensì sottrarre che è ben diverso, poiché nel primo caso è solo una tua responsabilità, nel secondo è una decisione da parte di altri.
Mi segui?
Annuii senza perdere tempo.
A quel punto, ecco arrivare il primo colpo: quando realizzi ció che ti è successo, immediatamente la tua preoccupazione va ai soldi che quel portafoglio conteneva, poi ai documenti che dovrei rifare da zero.
Ma cerchi comunque di mantenere la calma, perché dici a te stesso che si tratta solo di cose, diciamo.
E non appena sei riuscito a tranquillizzarti, ecco che ti arriva il secondo colpo, addirittura peggiore del primo: le fotografie delle persone a cui volevi bene, i biglietti che conservavi gelosamente, tutto andato, perso per  sempre.
Erano certezze irremovibili perché lì da sempre e che invece ora ti sono state sottratte e che non riavrai più. Se ci pensi, non è esattamente come il concetto di libertà? La diamo per scontata fino a quando non ci viene sottratta da qualcuno e solo a quel punto ci rendiamo conto di non avere accesso nemmeno alle cose più semplici, che definiremmo addirittura banali.
Perse per sempre.
Ecco perché la libertà è come un portafoglio.

Vincenzo uscì di galera considerandosi innocente.
Qui nessuno è colpevole se glielo chiedi; tutti vittime del sistema giudiziario.
Io lo sono.

Sono colpevole di omicidio. Ho ucciso, non mi pento e se tornassi indietro lo rifarei.
Accadde in crescendo, come solo le tragedie sanno essere. Un pezzo alla volta, fino alla espressione più alta del dramma. Perché il destino ti viene inciso dentro quando nasci e non ho mai creduto di poterlo cambiare, semmai che si rivelasse lentamente col tempo. Mia madre ha cercato, per quanto abbia potuto, di darmi un’istruzione, un tetto sulla testa e un piatto caldo in tavola.
Si è sempre spezzata la schiena con due, a volte tre lavori pur di non farmi fare la vita di strada di molti miei coetanei. Non so chi sia mio padre, non l’ho mai saputo e ormai non me ne frega nemmeno più. Ho una sorella più piccola, Anna, nata dall’unico tentativo di mia mamma di rifarsi una vita. La speranza è scaduta dopo un anno. Alcuni uomini non sono fatti per stare coi propri simili. Molti accomunano queste figure alle bestie feroci, ma persino i lupi sanno stare in branco rispettandone le leggi.
Quando Franco ha capito che mia madre non lo avrebbe mantenuto e che avrebbe dovuto sgobbare per la sua famiglia e per sua figlia, senza il minimo scrupolo, una mattina uscì e non tornò.
Mia madre ebbe un crollo, cercò di riprendersi, ma perse il lavoro.
Diventai io l’uomo di casa: lasciai la scuola e trovai impiego come netturbino, ma riuscivamo a stento ad arrivare alla metà del mese. Cercai allora di arrotondare con qualche lavoretto, chiamiamolo extra.
Quando avevo il turno di notte, portavo con me un po’ di roba da vendere. Si era sparsa la voce e chi voleva comprare sapeva dove trovarmi, dato che facevo sempre lo stesso percorso.
Mia madre ebbe i primi sospetti quando a casa iniziarono ad arrivare molti più soldi del solito, tutti in contanti, ma erano necessari e si tenne il dubbio sulla loro provenienza.
Anna continuava a crescere, ad andare a scuola e i risultati valevano il rischio.
C’erano notti durante le quali immaginavo come sarebbe stato il momento in cui mi avrebbero pizzicato, perché ero consapevole che questa vita non poteva durare a lungo. Invece andò alla grande, tanto da farla diventare un’abitudine, come se rientrasse nelle mie mansioni quotidiane. Una routine rotta dall’arrivo di Lili, che mi apparve improvvisamente come una stella cometa.
Batteva lungo il corso principale. Ma a differenza delle sue colleghe, si capiva che non c’entrava nulla con quel mondo. Era bellissima; accompagnava ogni gesto naturale con una eleganza innata. Una presenza aliena su un pianeta inospitale. Me ne innamorai subito. Ci scambiammo gli sguardi quando le passavo davanti col camioncino, la osservavo mentre si avvicinava alle auto che si fermavano a trattare come se avesse un coltello puntato alla schiena.
Spesso la sorprendevo piangere. Presi coraggio una notte, mentre ritiravo i sacchi della spazzatura davanti al Gabbiano blu un ristorante di pesce molto famoso in città e molto caro.
«Ti è piaciuta la cena?»
Avevo le mani occupate dai sacchi e indicai l’insegna con un gesto della testa. Lei non capì la battuta, sembrava spaventata, fuori posto. Guardò di sfuggita i neon ormai spenti, mi restituì lo sguardo e sorrise.
No, non aveva capito. In effetti non era poi una battuta molto divertente, ma almeno avevo rotto il ghiaccio.
«Non ti ho mai visto qui… io ci passo ormai da due anni, praticamente ogni sera e vi conosco ormai tutte».
Sorrise di nuovo, ma imbarazzata, come se volesse sparire assieme a quei sacchi neri.
«Non sei di molte parole vedo. Non ti disturbo allora, continuo il mio giro. Comunque io sono Martin».
«Lili».
«Piacere di conoscerti Lili. A presto allora».
Quella fu la prima volta che le parlai.
Ne seguirono molte altre in cui cercai il più possibile di passare da lei anche più volte nello stesso turno, solo per conoscerla meglio.
All’inizio non capivo perché ogni tanto rimaneva in penombra lasciando nascosto un lato del viso. Col tempo capii. Era opera di Radko, suo compagno e suo protettore. L’aveva convinta a seguirlo in Italia promettendole una vita migliore, ma non appena arrivata, le ha tolto il passaporto e le ha presentato il conto dopo appena una settimana.
Quando tentava di ribellarsi o portava a casa meno di quanto lui pretendesse, volavano schiaffi, pugni e altre cose che scoprii più tardi.
Radko però non gestiva solamente un giro di prostituzione, ma aveva le mani in molti altri affari: rivendeva auto rubate, smontandole e spedendole in giro per l’Europa, gestiva alcuni giri di scommesse clandestine, prestava soldi a strozzo e, chiaramente, vendeva droga.
Quella con la quale riuscivo a pagare l’affitto, fare la spesa e cercare di non far mancare nulla a mia madre e a mia sorella.
La fragilità con cui mi guardava Lili era una richiesta di aiuto: se non fossi intervenuto in fretta, avrebbe sicuramente fatto una brutta fine. Ma che potevo fare? Denunciarlo alla polizia? Bravo, così io rimanevo col culo a terra e con un nemico che me l’avrebbe sicuramente fatta pagare.
Ogni volta che ripenso a quella faccenda, anche a distanza di anni, mi sembra appartenga a una vita fa e, forse, che non appartenga nemmeno alla mia.

Accadde tutto velocemente.
Io e Lili iniziammo a vederci di nascosto. Per tenerla lontana dalla strada per un periodo la passavo a prendere, la portavo a finire il giro con me e le davo dei soldi per tenere a bada Radko. Ma la cosa durò poco, lo venne ovviamente a sapere e mandò alcuni suoi amici fidati a regolare la cosa: io finii al pronto soccorso con due costole incrinate, il naso rotto e tagli e botte un po’ ovunque. A Lili però andò peggio. Restò in coma due giorni per colpa di quella bestia che si accanì talmente tanto da romperle, tra le altre cose, la mascella con un pugno.
Fu allora che mi decisi e dovetti farlo velocemente e bene.
Parlai con mia madre, le raccontai tutto senza scendere troppo nei dettagli per non farla spaventare ulteriormente. Lei non chiese molto di più. La convinsi a prepare una borsa nella quale mettere il necessario suo e di Anna e sparire per un periodo.
Per non rischiare, non volli sapere dove sarebbero andate. Le diedi un telefono con solo il mio numero memorizzato, da usare in caso di emergenza. Una volta finito tutto l’avrei chiamata io.
Sempre che tutto fosse finito secondo i miei piani.
Servivano anche un po’ di soldi per farle andare avanti. Indipendentemente da come sarebbe finita la cosa, si doveva chiudere per sempre e c’era un solo modo per fare smettere Radko.

Il Bar Corallo era il suo ufficio; il quartier generale dell’intera organizzazione. Un locale dove non si avvicinava nemmeno la polizia. Nessuno si sarebbe mai messo in testa di fare casino lì dentro. L’arroganza di Radko e dei suoi uomini fu invece il loro errore più grande. Sapevo che gran parte dei soldi arrivava lì e ci rimaneva per qualche ora, il tempo di contarli, metterli in sacche nere e portarli chissà dove. Tutti lo sapevano e Radko stesso sembrava quasi vantarsi nel farlo alla luce del sole, quasi fosse un gesto di sfida, sicuro che nessuno si sarebbe mai intromesso. La disperazione a volte però supera l’incoscienza.
Prima del mio turno passai come al solito dal retro del locale a prendere la roba che avrei dovuto vendere quella notte. Sapevo che non lo avrei visto fino a quando sarei tornato con i soldi a fine giro. Non si sarebbe mai perso la scena di vedermi con ancora le medicazioni e gli ematomi in faccia mentre gli consegnavo un rotolo di banconote in segno di sottomissione. Goran, suo braccio destro, mi diede come sempre le bustine senza aprire bocca. Ora che ci penso credo di non aver mai sentito la sua voce.
Feci tutto come al solito; terminai il mio giro, restituii il furgoncino in rimessa, mi cambiai e ripresi la mia macchina, con una piccola deviazione da casa.
Perché in ogni numero di prestigio che si rispetti serve la bacchetta magica giusta e io me l’ero procurata il giorno stesso che uscii dall’ospedale dopo aver visto Lili in quello stato: una Beretta PX4 Storm Parabellum con matricola brasa. Ritornai al Corallo, parcheggiai l’auto esattamente davanti l’ingresso.
Entrai dalla porta principale. Radko mi guardò da dietro il bancone mentre si stava versando qualcosa da una bottiglia impolverata. Raggiunsi il tavolo dove era seduto Goran e svuotai le tasche con l’incasso della nottata. Lui prese le banconote, le arrotolò fermandole con un elastico e le aggiunse alle moltre altre dentro una delle sacche nere accanto alla sua sedia. Afferrai la mia parte e guadagnai l’uscita quando mi arrivò la voce di Radko.

«Vedi cosa succede quando un cane si prende libertà del padrone? Basta un po’ di bastone e torna a essere ubbidiente».

Finì con una risata alcolica, una breve pausa e la chiusura ad effetto: «Bravo cane, ora torna a casa».
Uscii senza voltarmi tra le risate generali. Entrai in auto e partii. Feci però il giro dell’edificio e mi parcheggiai dalla parte opposta della strada, riparato da alcuni alberi, in penombra e in attesa.
Si Radko, come un cane, che però attende di stanare la preda.
Attesi minuti, ore, forse mesi, non ne avevo idea, un tempo infinito nel quale il cuore mi rimbombava dentro il cranio. Non permisi a nessun pensiero di prendere forma; non ora, non quella notte.
A turno uscirono tutti tranne, come sempre, Goran e Radko.
Avrei dovuto attendere ancora. Dovevo rimanere solo con lui e sapevo che sarebbe arrivato quel momento, perché non si fidava di nessuno e amava restare solo a ricontare tutti i soldi prima di chiuderli in cassaforte e andarsene dal retro.
Goran abbassò la saracinesca, chiuse la porta di ingresso e spense l’insegna. Seguii con lo sguardo il perimetro dei muri fino a raggiungere lo stretto vicolo dal quale lo vidi uscire, salire sulla sua moto e partire.
Eccolo il momento.

Scesi dall’auto accostando la portiera senza fare rumore.
Mi coprii la testa col cappuccio nero della felpa mentre attraversavo la strada vuota e illuminata a intermittenza dal giallo dei semafori; l’aria era elettrica, di quelle che precedono un temporale di fine estate, nelle narici l’odore di asfalto bagnato arrivato da lontano.
Raggiunsi la piccola porta di metallo; la mano sinistra ferma sulla maniglia, pronta a scattare.
Respirai profondamente come facevo da bambino prima di andare sott’acqua ed entrai.
La scena che avevo immaginato decine di volte nella mia testa si era materializzata di fronte a me: Radko era seduto allo stesso tavolino dove prima avevo incontrato Goran, intento a segnare a penna i totali della serata sopra un registro dalla copertina marrone di pelle.
Mi guardò sorpreso, con gli occhi sbarrati della preda quando riesce a leggere il proprio futuro imminente e realizza che non può più intervenire. La mano destra estrasse la bacchetta magica dalla tasca del giubbotto di pelle pronta al prestigio e recitai la formula magica:
«Puoi fare una brutta fine se bastoni il cane sbagliato».
Radko azzardò una replica, ma il mio indice sul grilletto fu per tre volte più veloce di ogni suo tentativo balbettante di controbattere.
Fine del numero di magia.

Presi tutte le borse nere che riuscii a trovare, le caricai in macchina e me ne andai di fretta. Imboccai l’autostrada e mi fermai al primo autogrill. Telefonai a mia madre per dirle che era tutto finito. Le dissi dove poteva trovare le sacche nere e che non ci saremmo visti per un po’, ma che mi sarei fatto vivo io appena possibile. Sentii la sua voce tremare mentre mi diceva che mi voleva bene e di stare attento. Era quasi l’alba quando tornai in ospedale da Lili a lasciarle una lettera, per spiegarle che era tutto finito e che se avesse avuto voglia di aspettarmi, l’avrei sposata al mio ritorno. Non serviva scappare, ormai non c’era più bisogno. Decisi di chiuderla nel modo migliore, raggiunsi il comando di zona e mi costituii. Nei primi mesi ebbi paura di morire quasi ogni giorno.
Radko aveva contatti ovunque e molti amici che gli dovevano favori e ai quali continuava a mantenere le famiglie, mentre loro scontavano la pena. Spesso trascorrevo la notte senza chiudere occhio, credendo che ogni rumore fosse di qualcuno che stesse venendo da me. La paura a un certo punto terminò e con lei parte delle mie preoccupazioni. Cessarono anche gli attacchi di panico e la sensazione di essere perennemente braccato. Gli occhi addosso no, ma in carcere tutti guardano tutti e sono guardati da tutti. È considerato normale.

Mia madre venne a trovarmi ogni volta che poteva.
Di Lili invece non ebbi notizia per molto tempo. Ricevetti una sola lettera, nella quale mi diceva che era uscita dall’ospedale, che aveva trovato lavoro come commessa in un negozio di abbigliamento in un centro commerciale appena fuori città e che per il momento la ospitava una sua collega, in attesa di trovare un posto solo per lei. Stava ricominciando a vivere dopo quella lunga parentesi. Solo verso la fine del terzo foglio riuscì a trovare il coraggio per tornare a parlare dell’accaduto. Mi ringraziò per quanto avessi fatto, ma al tempo stesso mi accusò di essermi comportato come Radko: avevo preso la decisione senza concederle la possibilità di scegliere, l’avevo coinvolta senza chiederle nulla, esattamente come aveva fatto lui facendola arrivare in Italia e sbattendola sul marciapiede. Era dispiaciuta per quello che stava scrivendo ma non voleva più mentire. Chiuse la lettera lasciando però aperta la possibilità che venisse a trovarmi, ma non mi lasciò nessun recapito a cui poterle scrivere nuovamente. Nessun numero di telefono al quale chiamarla.
Quelle parole mi ferirono come lame arrugginite e avvertii un peso sulle spalle, come se ci avessero appoggiato sopra il mondo intero. La cosa che più mi fece male però è che aveva ragione. Non le avevo lasciato decidere nulla, muovendo le pedine della mia vita e della sua senza che lei ne sapesse nulla. Quando realizzai che mi ero comportato esattamente come Radko mi feci schifo: ognuno pensa che il proprio comportamento sia corretto rispetto agli altri, che lo fa per una buona causa, propria o altrui, confondendo egoismo travestito da altruismo. Alla fine io volevo farla pagare a Radko una volta per tutte e ho trovato in Lili l’alibi perfetto.

Riesco a sentire il cinguettìo degli uccelli. Attraverso la grata che dà all’esterno, ne vedo alcuni volare in controluce mentre il cielo inizia ad accendersi. Ormai è quasi l’alba, tra poche ore varcherò la soglia di questa cella, uscendo per l’ultima volta. Anche stanotte non ho chiuso occhio, ma almeno è stato per una buona causa. Non so se ho più dubbi o speranze. Ho certamente paura di ciò che troverò fuori: un mondo che non è più quello di quando sono entrato qui. Io non sono più lo stesso uomo e le persone a cui più voglio bene nemmeno. Con le mie azioni ho sconvolto tre vite e ora devo vedere se mi permetteranno di farne parte.

Il secondino ha appena chiamato il mio nome, ha aperto la cella, mi ha guardato negli occhi e pronunciato la frase più bella e pericolosa tra tutte: Martin Gallo, sei libero.
Dopo anni ho recuperato il mio portafoglio. Ora devo riuscire a riempirlo di nuovo con le cose più preziose che ho e, stavolta, proteggerlo.

Racconto tratto da “Il primo passo”.

Riccardo Fano